U verru, che significa il porco, oppure lo scanna-cristiani per la sua ferocia, comunque al secolo Giovanni Brusca, un nome che solo a sentirlo ricorda stragi, morti ammazzati, azioni tra le più cruente senza precedenti, e un bambino sciolto nell'acido. Brusca, nato a San Giuseppe Jato, in Sicilia, il 20 Febbraio del 1957, ha presentato ricorso in Cassazione. Prima è uno dei peggiori mafiosi, poi si pente. Condannato a 30 anni, sta scontando la sua pena nel carcere di Rebibbia. Fra le più atroci azioni commesse da Brusca l'aver sciolto nell'acido il piccolo Giuseppe Di Matteo per punire il padre, che si era pentito. Eppure la Procura Nazionale Antimafia lo definisce un uomo ravveduto, tanto da poter finire di scontare la sua pena ai domiciliari. Si chiama tecnicamente passaggio dall'esecuzione penale interna all'esecuzione penale esterna. Tutte o quasi le pene carcerarie finiscono con un periodo di restrizioni fuori dal carcere. Questione che fa venire la rabbia a chi grida “è già fuori”. Non è il pentitismo che ti porta fuori dal carcere, qualunque crimine orribile tu abbia commesso, ma il complessivo percorso di quasi 30 anni e la rilevanza del contributo fornito alla giustizia. Il mafioso che spinse la leva che uccise Giovanni Falcone, la moglie e i tre agenti della scorta ha goduto finora di 80 permessi premio. Nonostante l'affidabilità della sua condotta fuori dal carcere, il tribunale di sorveglianza ha continuato a negargli i domiciliari per ben nove volte. Per i giudici che si oppongono alle richieste di Brusca, il pentimento deve essere qualcosa di profondo e un riscatto morale verso i familiari delle vittime. La parola fine ad una parabola di violenza, di malavita e infine, a quanto pare, di espiazione spetterà alla Cassazione.