Il rumore in sottofondo delle onde del mare e un pasto a base di pesce: è uno dei piaceri della vita. Ma quando ci mettiamo a tavola, siamo davvero sicuri di quello che abbiamo nel piatto? Per capirlo andiamo al porto di Fiumicino, al rientro dei pescherecci con le reti cariche di pesci, ma non solo. Il 50 per cento del contenuto delle reti, infatti, è costituito da frammenti di plastica più o meno grandi. Sul fondo del Mare Nostro ci sono 100.000 pezzi di plastica per chilometro quadrato. Ma quel che preoccupa di più è che oltre alla plastica, che s’incaglia nelle reti, c’è quella che finisce nello stomaco degli animali marini. Per vederci più chiaro andiamo all’Università di Siena, dove con fondi ridottissimi un gruppo di ricercatori, guidati dalla professoressa Maria Cristina Fossi del Dipartimento Scienze fisiche della terra e dell’ambiente, dal 2011 sta compiendo una mappatura completa delle macro e micro plastiche riversate nel Mediterraneo, con le loro conseguenze sulla biodiversità: “In particolar modo, in certe zone pelagiche, dove apparentemente le plastiche non dovrebbero essere presenti”. Le microplastiche sono frammenti di polimeri di dimensioni inferiori ai 5 millimetri e vengono mangiate dai pesci: “Assorbono inquinanti sulla superficie migliaia e milioni di volte superiori a quelli presenti sulla superficie del mare”. Una spugna impregnata di derivati dal petrolio, ritardanti, DDT, metalli pesanti. Una ricerca condotta nel 2015 a Messina, su un campione di 162 spigole, in collaborazione con l’Ispra e il CNR, ha dimostrato come l’assunzione di microplastiche abbia effetti sia fisici che chimici sull’animale: “Gli animali erano più magri, si alimentavano in maniera anomala, quindi avevano un peggioramento delle loro condizioni fisiche”. Dunque, gli agenti chimici presenti sui pezzetti di plastica che vengono inghiottiti dai pesci sono poi assimilati dall’organismo e finiscono nel muscolo. Eccoci così alla nostra domanda iniziale: sappiamo davvero cosa mangiamo? E soprattutto, può farci male? “Si sono viste delle alterazioni che possono portare all’induzione di processi tumorali. Chiaramente, non possiamo dire microplastica uguale formazione di tumore”. L’obiettivo dei ricercatori è capire come si comportano gli ftalati, le sostanze aggiunte al polimero per migliorarne la flessibilità e la modellabilità: “Attraverso analisi di laboratorio possiamo individuare quali sono le sostanze, quali per esempio ftalati, bisfenolo, o quelli che vengono chiamati POP, i persistent organic pollutants, che aderiscono alla superficie della plastica e vengono poi trasportati e magnificati all’interno dell’organismo”. “Sono stati rinvenuti nei tessuti degli organismi che noi abbiamo studiato”. Gli ftalati sono distruttori endocrini, ossia agenti altamente patogeni per l’animale. E per noi? Per rispondere a questa domanda, a dicembre 2016, i sedici massimi esperti al mondo in materia si sono riuniti alla FAO a Roma. La conclusione è stata: “Rimane un argomento di studio su cui la comunità scientifica si sta muovendo”. In altre parole, non esistono informazioni scientifiche definitive. Occorrerà altra ricerca perché oggi si sa per certo che gli ftalati si trasferiscono dalla plastica al pesce. L’obiettivo dei ricercatori è capire se e come avviene il passaggio successivo, quello dal pesce all’uomo. E che effetti ha.