L'unico candidato riformista si è ritirato dalla corsa elettorale pochi giorni fa. In Iran, su sette aspiranti presidente, soltanto uno non è un conservatore. A vagliare le candidature e imporre una direzione al voto di venerdì, è stato il Consiglio dei Guardiani della Costituzione, formato da teologi e giuristi e in mano ai conservatori. Non è dunque una sorpresa che il favorito alle urne sia un conservatore: Ebrahim Raisi, capo dell'apparato giuridico. Il voto, che sembra già assegnato, è comunque destinato a cambiare equilibri interni e ad avere, all'esterno, un impatto con alleati rivali, visto che il presidente uscente Hassan Rouhani, appartiene al campo dei cosiddetti riformisti. Nel 2015 ha appoggiato l'accordo internazionale sul programma nucleare di Teheran, da cui nel 2018, si è ritirata l'America di Donald Trump. L'avvento alla Casa Bianca di Joe Biden fa sperare l'Europa, parte dell'intesa, che si possa tornare al negoziato mentre l'Iran, dove si rafforzano i conservatori meno interessati a un compromesso nucleare, nei mesi passati ha ricominciato ad arricchire l'uranio, oltre i limiti consentiti dall'accordo. Tutti i candidati, anche quelli più conservatori, hanno però dichiarato in campagna elettorale di voler tornare alle trattative internazionali. Chiunque aspiri alla presidenza infatti, promette di sanare la situazione economica e vuole quindi che gli Stati Uniti cancellino le sanzioni che, dal 2018, affaticano un'economia già piegata dalla cattiva gestione dell'élite politico-religiose, dalla corruzione, dalla pandemia. Il tasso di inflazione in Iran è oltre 50%. Il malcontento sociale, minaccia per il regime, s'innesca ciclicamente. L'ultima volta è accaduto nel novembre 2019, dopo un aumento del prezzo del carburante, sono scoppiate proteste in oltre cento città del Paese. Negli scontri con la polizia sarebbero morte oltre 300 persone.