Per il terzo giorno consecutivo, le fiamme, favorite da forti venti e da due mesi di siccità, divampano in Israele, nelle aree intorno a Gerusalemme, in Cisgiordania. Ma è ad Haifa, nel nord del Paese, la situazione più critica: strade e scuole sono state chiuse, 60.000 persone evacuate, ma pare che in alcuni quartieri ci siano ancora anziani in difficoltà; circa 7.000 le abitazioni senza elettricità. Qui si stanno concentrando gli sforzi maggiori. Tel Aviv ha chiesto l’aiuto internazionale. Sono già arrivati da Grecia e Cipro quattro aerei che stanno riversando liquido ignifugo sui roghi; in arrivo aiuti anche da Croazia, Turchia e Italia. Il Premier Netanyahu ha parlato personalmente con il Presidente russo, Putin, che gli ha confermato l’invio immediato di due Be-200. L’esercito ha richiamato i riservisti, nel timore che si ripeta la tragedia del 2010, quando un incendio, il più violento nella storia di Israele, nel quartiere di Carmel, proprio ad Haifa, provocò la morte di 44 persone. Secondo alcune fonti, diversi incendi potrebbero essere stati appiccati volontariamente, dolosi, quindi. Il Capo della polizia israeliana ha avanzato il sospetto che dietro ci possa essere un attacco organizzato e dal carattere nazionalistico. Per il Ministro dell’Istruzione, Naftali Bennett, che guida la lobby dei coloni, solo coloro cui la terra non appartiene sono in grado di bruciarla, puntando non troppo velatamente il dito sulla minoranza araba. Sia la polizia, sia lo Shin Bet, l’Agenzia di intelligence per la sicurezza interna, hanno aperto inchieste. E intanto, i social media arabi esultano. Le foto delle fiamme sono diventate virali e spopola l’hashtag “Israele brucia”.