Le uniche risposte, sempre le stesse. Mentre a colpi di cemento armato si alza l’ennesimo muro per impedire ai profughi di attraversare la Manica, le cariche della Polizia francese tornano a colpire i migranti attivisti nel campo di Calais. Siamo nel nord del Paese, vicino al confine con il Belgio, in quella che chiamano giungla. Nient’altro che una bidonville, divenuta il simbolo dell’incapacità dell’Europa di rispondere a chi fugge da guerre e povertà. Da giorni la tensione è di nuovo alta dopo la notizia dell’imminente sgombero da parte delle autorità. Secondo le organizzazioni umanitarie che lavorano nel campo, qui vivono almeno 10.000 rifugiati e richiedenti asilo, 1.000 sono minori non accompagnati. La maggior parte viene da Afghanistan, Sudan ed Eritrea, moltissimi dalla Siria. Il piano di Hollande prevede di evacuarli e di collocarli nei centri di accoglienza sparsi in tutta la Francia, ma i residenti della jungle – dicono le ONG – “oltre a non poter scegliere la loro destinazione, non sono neanche stati messi al corrente di come e quando avverrà lo sgombero”. Mentre il Governo britannico annuncia che circa 300 dei minori non accompagnati saranno trasferiti a breve nel Regno Unito, anche il Consiglio d’Europa si dice molto preoccupato dello sgombero, in quanto non sarebbero ancora noti i piani delle autorità francesi per dare alloggio e cure a coloro che attualmente si trovano nel campo. All’ombra di muri e giungle d’Europa, in Spagna finisce male un’altra storia divenuta simbolica, quella dell’allenatore siriano sgambettato da una reporter al confine tra Serbia e Ungheria, che un anno fa fece il giro del mondo. Osama Mohsen finì a terra con il figlio di sette anni che teneva in braccio, ma riconosciuto in tv venne chiamato a lavorare in una scuola di calcio spagnola. Oggi è stato licenziato. “È uno sfaticato” dice il suo capo.