I corrispondenti italiani di allora la chiamavano “la signora Albright”. Ai tempi in cui la politica internazionale di altissimo livello era fatta quasi esclusivamente ancora da uomini, Madeline Albright era un’eccezione. Nata Marie Jana Korbelova, figlia di immigrati cecoslovacchi scappati dal comunismo prima e dal nazismo poi, la giovane e brillante dottoranda con tesi sulla Primavera di Praga diventa presto una delle voci più ascoltate nel Consiglio per la Sicurezza Nazionale del Presidente Carter. Dopo essere entrato alla Casa Bianca nel ’92, Bill Clinton la nomina Ambasciatrice presso le Nazioni Unite, dove si scontra ripetutamente con l’allora Segretario Generale Boutros-Ghali sulla natura degli interventi ONU in Somalia, Rwanda e Bosnia. Il disimpegno degli Stati Uniti e il fallimento della comunità internazionale nel fermare quei genocidi -dirà poi- furono il suo rimpianto più grande. Così come -più tardi- si pentirà di aver definito “un prezzo necessario” le centinaia di migliaia di bambini morti in Iraq per le sanzioni imposte al Paese dopo l’invasione del Kuwait. Nel 1997, al suo secondo mandato, il Presidente Clinton la vuole come suo Segretario di Stato. Per la prima volta una donna è a capo della diplomazia del Paese più importante del mondo. Si muove a suo agio, sia nelle Cancellerie internazionali -dove gode di enorme rispetto- che nelle sue famose passeggiate per le strade delle capitali straniere. Sono anni relativamente pacifici, e la Signora Albright -che parla anche ceco, polacco e russo- promuove l’ingresso delle ex Repubbliche sovietiche dell’Est Europa nella NATO e sostiene l’intervento militare nel Kosovo. Nonostante la malattia, è rimasta lucida fino alla fine. Appena un mese fa, scriveva che l’invasione dell’Ucraina avrebbe segnato la fine di Putin e devastato la Russia, rafforzando al contempo le alleanze nell’Occidente. È morta a 84 anni lasciando un mondo pericolosamente simile a quello che vide nascendo, sull'orlo della Guerra Mondiale.