“Vago, prematuro, logisticamente e giuridicamente impraticabile” è il giudizio unanime delle organizzazioni umanitarie, delle ONG e delle associazioni locali che si occupano dei diritti umani dei Rohingya, nei confronti del fantomatico accordo annunciato nei giorni scorsi dai governi di Birmania e Bangladesh, sul rimpatrio dei Rohingya, la minoranza etnica musulmana oggetto di feroci persecuzioni in Myanmar, e costretta a rifugiarsi in massa nel Bangladesh. “Non c’è alcuna possibilità nell’immediato che questa gente possa tornare nel loro Paese – ha sottolineato un portavoce dell’UNHCR, l’Alto commissariato ONU per i rifugiati – primo, perché i loro villaggi sono stati distrutti; secondo perché non hanno documenti. Sono apolidi, e come tali verrebbero respinti al confine”. L’accordo raggiunto dai ministri degli esteri di Dacca e Naypyidaw, prevede il rimpatrio controllato in tempi indefiniti di tutti coloro che dimostrino di provenire dalla Birmania, ma nessuno dei profughi è attualmente in possesso di documenti, e il governo birmano ha già fatto sapere che non riconoscerà quelli rilasciati dopo una difficile ma efficiente opera di identificazione dall’esercito bengalese, sotto la supervisione dell’UNHCR. Lungi dall’essere risolutivo, insomma, l’accordo sembra rispondere alle esigenze di propaganda interna ai due Paesi, alla vigilia della visita di Papa Francesco, atteso nei prossimi giorni, in Birmania e in Bangladesh, dove tuttavia, e a meno di sorprese all’ultimo momento, non si recherà in visita ai campi profughi.