Dal 2012 i parlamentari non hanno più vitalizi, ma pensioni calcolate col sistema contributivo, come gli altri lavoratori. Stiamo, però, parlando dei parlamentari eletti, appunto, dopo quella data e non di tutti quelli venuti prima, che sono parecchi, circa 2.600. Costoro o i loro eredi percepiscono effettivamente quello che è corretto chiamare un vitalizio, quel meccanismo previdenziale costituito da una rendita a vita, che era stato voluto fin dalla prima legislatura repubblicana per tenere al riparo ogni rappresentante del popolo da minacce, pressioni, lusinghe di stampo economico. Il principio era semplice: il popolo, perché tu ti occupi dei suoi interessi, ti stipendia e ti garantisce un paracadute; non avrai bisogno di altro. Fino a non molti anni fa bastava essere entrato in Parlamento per pochi giorni e a vita si percepiva una cifra dalle tre alle cinque volte superiore a quanto versato. La sensibilità dell’opinione pubblica in merito nel frattempo cambiava in modo sostanziale e si cominciava a parlare di inaccettabili privilegi di una casta. Dopo gli anni Novanta, sono arrivate, quindi, importanti riforme, che hanno portato a quattro anni, sei mesi e un giorno di attività effettiva in Parlamento il periodo minimo per poter ottenere l’assegno e imposto il limite di età dei sessantacinque anni per incassarlo. Ma i vitalizi ci sono ancora e fioriscono proposte e iniziative per abolirli del tutto o, quantomeno, ricalcolarli col metodo contributivo. Come abbiamo visto, sono alimentati, infatti, solo in minima parte da un prelievo sulle indennità del periodo di esercizio della carica. Secondo i dati dell’Inps, per il 2018 la spesa per i vitalizi sarà di 207 milioni, a fronte di 37 milioni versati, e questi circa 200 milioni di spesa pubblica ci sono ogni anno.