La forza di un simbolo, la potenza di un gesto, sempre più spesso i campioni sportivi utilizzano la propria visibilità per dare supporto a chi protesta e chiede il rispetto dei diritti. È lo sport che insorge e fa sentire la propria voce. Un velo che scivola, una dichiarazione per i più fragili, un coming out sulla propria omosessualità. Il panorama è vasto e spazia nella storia. Dalle magliette rosse che indossarono Adriano Panatta e Paolo Bertolucci, che scesero in campo così nel paese del dittatore Pinochet, alle manifestazioni più recenti. In Iran, dopo il caso di Mahsa Amini, la ragazza morta dopo essere stata arrestata dalla polizia morale per non aver indossato il velo correttamente, tanti atleti si sono mossi in segno di solidarietà con chi protesta nelle piazze contro il regime di Teheran. La squadra iraniana di beach soccer si è rifiutata di cantare l'inno nazionale. E poi ci sono le atlete che hanno gareggiato senza velo, come la campionessa Elnaz Rekabi o l'arciere iraniana Parmida Ghasemi che è salita sul podio lasciando cadere il velo. La lotta per i diritti continua con gli atleti che appoggiano le comunità LGBT. "Sono gay e orgoglioso" ho scritto con un post su Facebook l'atleta canadese Shawn Barber. Di recente Isaac Humphries, ex giocatore degli Atlanta Hawks in NBA, ha pubblicato un video sui social in cui ha fatto pubblicamente coming out. Ed è ancora una volta lo sport ad intervenire per George Floyd, l'afroamericano ucciso da un poliziotto a Minneapolis. I campioni si sono inginocchiati in suo onore, come hanno fatto i giocatori del Liverpool. Ma il simbolo dei diritti è un gesto passato alla storia: quello dei velocisti Tommie Smith e John Carlos. Sul podio mentre suona l'inno americano abbassano la testa e alzano un pugno chiuso. Un urlo silenzioso nel nome delle battaglie per i diritti civili degli afroamericani in America.