Una macchia di sangue sull'asfalto davanti al condominio in cui il commissario abitava. Zona Pagano a Milano. Stava andando al lavoro, Luigi Calabresi, era mattina, lo hanno colpito in due, di spalle. Il giorno dopo, il 18 maggio, il quotidiano Lotta continua scrive: il suo omicidio è un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia. Parole che mettono il sigillo di piombo ad una campagna lunga e martellante contro di lui, iniziata molti mesi prima all'indomani della bomba di Piazza Fontana. Calabresi fu uno dei primi a entrare nel salone della banca, teatro della strage. E c'era lui in questura quando il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, volò giù dalla finestra. Fu additato come responsabile di quella morte. Partì una violenta campagna personale a cui parteciparono molti esponenti e diversi giornali della sinistra italiana di allora. L'obiettivo della lotta, per la prima volta, non erano più la classe dominante o lo Stato, non era un obiettivo astratto. Era diventato una persona, nome e cognome, con un indirizzo. Il giorno dei funerali, la bara passò davanti alla questura; a seguirla, insieme alla moglie Gemma e agli altri familiari, c'erano 200 mila persone. Le indagini sull'omicidio girarono a vuoto a lungo, fino al 1988 quando, Leonardo Marino, ex militante di Lotta Continua, confessò di aver partecipato all'assassinio con Ovidio Bompressi, indicando i mandanti in Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri. Sono stati tutti e quattro condannati. L'assassinio Calabresi fu il primo omicidio politico della terribile stagione italiana degli anni di piombo. Fu un atto simbolico, ma prima di tutto, fu l'uccisione di un uomo di appena 34 anni sposato, due figli e un terzo in arrivo. Qualche giorno fa su Twitter, Mario Calabresi ha pubblicato la foto presa da lontano di un bambino sulle spalle del papà. Una domenica mattina scrive, l'unico ricordo che ho di mio padre.