Diffamare l'azienda su Facebook è causa di licenziamento

27 apr 2018
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Per molti è un passatempo, un modo per tenersi in contatto con amici e conoscenti, ma troppo spesso Facebook è diventato un luogo nel quale sfogarsi. Di per sé non ci sarebbe nulla di male, non fosse per il fatto che bisogna stare attenti a quello che si scrive, perché pubblicare sulla propria bacheca può configurare, a seconda di quello che si dice, il reato di diffamazione. Lo sa bene una lavoratrice romagnola che è stata licenziata dopo aver scritto alcuni post sulla propria pagina del social network nei quali si lamentava, in termini “poco lusinghieri”, dell’azienda per la quale lavorava e della titolare. Messa alla porta, la donna aveva fatto ricorso prima al tribunale di Forlì, poi in appello a quello di Bologna, ma entrambi i giudici avevano dato ragione al datore di lavoro. Ora anche la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso della donna, che chiedeva di dichiarare illegittimo il licenziamento intimatole. I giudici del merito avevano ritenuto irrilevante che non fosse stato specificato nel post il nome del rappresentante della società dato che era facilmente identificabile il destinatario. La Suprema Corte ha sostanzialmente condiviso le tesi dei giudici di primo e secondo grado, dichiarando legittimo il licenziamento perché la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione. Di fatto, quanto scriviamo sulla bacheca del nostro profilo potenzialmente raggiunge un numero indeterminato di persone. In più, i commenti possono circolare, creare dibattito, insomma sono di pubblico dominio. Tanto basta per gli ermellini a far cessare il vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro. Insomma, dobbiamo imparare a usare i social network e ricordarci che proprio perché sono un modo per condividere la nostra vita ci sono dei limiti del tutto simili a quelli del mondo in tre dimensioni.

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