Quando la motovedetta italiana ha raggiunto l'imbarcazione quasi tutti i profughi e migranti erano già annegati. Viaggiavano su questo barchino di sette metri che si era ribaltato a causa delle onde. Alcuni dei sopravvissuti sono morti di freddo sul mezzo militare che ha tentato una disperata corsa verso Lampedusa, a 30 miglia di distanza, e tra loro una bambina. Al molo Favarolo una scena straziante: per tutta la sera un via vai di barelle, ambulanze, corpi senza vita e altri in fin di vita. Come questo ventenne ivoriano deceduto poco dopo al poliambulatorio dell'isola. Sei connazionali restano ricoverati. Con gli altri sedici superstiti continuano a chiedere notizie dei loro familiari inghiottiti dal mare. Vittime in quel Mediterraneo centrale sempre più cimitero di disperati messi in mare da trafficanti senza scrupoli anche quando le condizioni meteo-marine, come adesso, sono proibitive, dove, in assenza di missioni coordinate e di ricerca e soccorso molti SOS restano inascoltati e i naufragi avvengono, a volte, senza che se ne sappia nulla. Le motovedette che partono dal lembo più a sud d'Europa spesso non riescono ad arrivare in tempo e non sono attrezzate con spazi interni e sale mediche come invece lo sono le navi umanitarie che però sono tenute lontane. Preclusi i porti vicini in Sicilia e in Calabria dopo ogni salvataggio vengono inviate in porti distanti. Poche ore prima di questa ennesima strage la nave di Emergency era arrivata a Ravenna e la Ocean Viking a Livorno dopo quattro giorni di navigazione per raggiungere il porto assegnato e sbarcare i naufraghi salvati. Altre navi delle ONG sono invece bloccate in porto come la Mare Jonio e sottoposta a fermo con l'accusa di aver impedito ai miliziani libici di riportare indietro un gruppo di migranti. Ma quello è un respingimento ed è vietato dal diritto internazionale, ricorda Mediterranea, che contro il provvedimento ha presentato ricorso.