Lidia Macchi è stata uccisa nel 1987 e ad oggi la giustizia italiana non ha stabilito da chi. Sono le diciannove quando i giudici della Prima Corte d'assise d'appello di Milano lasciano la Camera di Consiglio e annunciano che Stefano Binda non ha ucciso la ragazza 32 anni fa. "Assolto per non aver commesso il fatto". Un omicidio, quello di Lidia, senza colpevole, ma con una lunga storia alle spalle. A coinvolgere Binda un testimone, che nel 2016 riconobbe la sua scrittura nella lettera anonima spedita il giorno dei funerali della ragazza, il 10 gennaio del 1987, nella quale veniva riportata la poesia "In morte di un'amica". Lui ha sempre negato e ora la giustizia gli ha dato ragione. Dopo oltre tre anni di carcere, però. La famiglia di Lidia commenta "Abbiamo retto per 32 anni. Andremo avanti anche questa volta. Vogliamo la verità". E il legale annuncia ricorso. "Quindici giorni e tre udienze sono troppo pochi per emettere un verdetto" spiega, "Questa sentenza è stata la trentesima coltellata inferta a Lidia". Della lettera, la prova regina della colpevolezza di Binda, parla la difesa. "Può essere stata scritta da una persona acculturata che era rimasta molto colpita dal fatto". Una tesi che la difesa ha portato in aula e che, evidentemente, è riuscita a convincere i giudici.