Nel suo quartiere, nella periferia a est di Roma, lo chiamavano “Pelosino”, il più classico dei modi canzonatori romani per prendere in giro un uomo dall’aspetto imberbe. Alla storia è passato come Pino “la rana”, per gli occhi gonfi di lacrime o, chissà, botte prese durante l’interrogatorio in carcere, in seguito all’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Se ne è andato dopo aver combattuto con una di quelle malattie che non ti lasciano scampo. Aveva 58 anni. Ne aveva appena 17, invece, quando la notte del 2 novembre 1975 uccise il poeta e regista italiano all’idroscalo di Ostia. Nell’auto la polizia trovò tracce del sangue del poeta e altri indizi che portarono ad identificare in Pelosi l’assassino. Lui stesso si assunse la responsabilità del delitto, raccontando di aver rifiutato le avances di Pasolini e di aver reagito picchiandolo fino a ucciderlo. Fu condannato a 9 anni e 7 mesi di carcere come unico autore dell’omicidio, ma il delitto è uno di quei casi che tutt’oggi presentano aspetti oscuri, tant’è che in origine Pelosi fu condannato per omicidio in concorso con ignoti. Nel 2005, poi, lui stesso cambiò versione sostenendo che a uccidere Pasolini erano state tre persone. Nel frattempo, aveva arricchito il suo curriculum di delinquente con altri delitti, meno clamorosi del primo: la rapina di un furgone postale nell’84 (verrà, poi, assolto per insufficienza di prove), il furto in un appartamento, una tentata rapina nell’85 e un’altra ancora nel 2000. Con lui se ne va, insomma, l’unica persona che sapeva la verità su quella notte di 42 anni fa.