In Italia tasse e contributi sul lavoro sono tra i più alti d’Europa. Parliamo del cosiddetto “cuneo fiscale”, cioè la differenza tra quanto un dipendente costa all’azienda e il suo salario. Facciamo un esempio. Per dare uno stipendio netto di 1.400 euro al mese a un operaio un’azienda ne deve spendere 2.400. I 1.000 euro di differenza sono tasse e contributi per la pensione a carico del dipendente e dell’impresa. Con il bonus degli 80 euro e la riduzione da quest’anno dell’IRAP, l’imposta a carico delle imprese, le cose sono un po’ migliorate. Non abbastanza, però, per Paolo Gentiloni, che vuole tagliare le tasse sul lavoro. I benefici sarebbero sia per i dipendenti, che si troverebbero una busta paga più pesante, sia per le aziende, che spenderebbero di meno. Non è, però, cosa semplice, perché i contributi per la pensione futura qualcuno li deve pagare e, se si tagliano, ci deve pensare lo Stato. Una sforbiciata di cinque o sei punti percentuali finirebbe per costare all’erario circa 10 miliardi. Troppo per i nostri conti pubblici, già alle prese con problemi di deficit e manovre correttive. Per questo si starebbe ragionando su un intervento limitato: balzelli un po’ più leggeri solo per le nuove assunzioni, con un peso sul bilancio di 1,5-2 miliardi. In questo modo si darebbe una spinta all’occupazione, dopo che i generosi bonus fiscali per le nuove assunzioni sono stati confinati ai giovani del sud senza lavoro. Questa misura, che potrebbe cominciare a prendere forma ad aprile, cambierebbe gli interventi dell’esecutivo nell’ambito delle tasse. L’annunciata riduzione dell’IRPEF, l’imposta sui redditi, sarebbe rinviata. Sui conti, però, aleggia uno spettro, quello del rincaro dell’IVA. Senza un intervento del Governo, nel 2018 scatterà l’aumento automatico dell’imposta sui consumi. Per evitarlo, bisogna trovare quasi 20 miliardi, un macigno che limiterà la possibilità d’azione di Palazzo Chigi.