Il divorzio, dopo anni di tentativi, alla fine è arrivato e segna il ritorno a un ruolo di primo piano dello Stato nelle telecomunicazioni. La rete di TIM viene separata dalla società un tempo monopolista della telefonia, che quindi non sarà più titolare dell’infrastruttura, cioè i cavi di rame e la fibra ottica, venduti a una cordata che oltre al Ministero dell’Economia comprende una serie di fondi d’investimento, con capofila quello statunitense KKR, affiancato da quello italiano a partecipazione pubblica F2i, uno di Abu Dhabi e uno canadese. Per i consumatori, almeno per il momento, non cambia nulla. Ma si tratta di un evento importante perché è l’autostrada telematica più importante del Paese a passare di mano. Copre la maggior parte delle abitazioni e degli uffici della Pubblica Amministrazione, permettendo la trasmissione di dati sensibili. Da qui la decisione del Governo di entrare in società con un gruppo di partner per assicurarsi un posto di comando. Una scelta dettata da esigenze di interesse nazionale e strategico, secondo Palazzo Chigi, che per contro punta a una serie di privatizzazioni che coinvolge colossi come Poste Italiane. L’operazione TIM vale fino a 22 miliardi di euro: la cifra esatta dipende da una serie di variabili che si definiranno in futuro. L’infrastruttura, comunque, non sarà interamente in capo allo Stato e il riassetto permette a TIM di dare un corposo taglio all’alto debito accumulato e al personale: circa 20.000 suoi dipendenti passano alla società che gestisce i cavi.