Sono passati due anni da quando la bandiera bianca con impressa la professione di fede è tornata a sventolare in Afghanistan. Due anni dopo, l'Emirato Islamico non è collassato come qualcuno immaginava, o sperava. E questo, nonostante la pressione internazionale. Neanche una sola capitale ha formalmente riconosciuto il Governo dei Talebani, ma non esiste un'opposizione politico-militare abbastanza forte e sostenuta da pensare di poterli contrastare. Ed è di questo immobilismo che si nutre la dittatura teocratica della Repubblica islamica dell'Afghanistan, che ha trovato la via libera per l'installazione di un regime di apartheid di genere nei confronti delle donne. Come già negli anni 90, sono loro a pagare il prezzo più alto. Discriminate, soggette a persecuzioni, violazione dei propri diritti e delle proprie libertà. Obbligate a coprirsi il volto in pubblico e escluse dalla vita sociale lavorativa. Le ragazze poi vengono private del loro futuro, il diritto all'istruzione è negato a chi ha più di dieci anni. Oltre ad essere vessato dal regime dei Talebani, l'Afghanistan oggi sta affrontando una delle più grandi crisi umanitarie del mondo. Secondo le Nazioni Unite, più dell'80% delle famiglie ha bisogno di un prestito per portare il cibo in tavola. 875.000 bambini sono in stato di malnutrizione acuta. Il Paese è isolato. Pesano le sanzioni, il blocco all'estero dei fondi della Banca Centrale afghana e l'interruzione degli aiuti allo sviluppo. La diplomazia internazionale si interroga se siano questi gli strumenti utili per fare pressione sul rispetto dei diritti umani nel Paese. E anche la diaspora afghana appare divisa tra chi considera l'apertura al dialogo con i Talebani un affronto, e chi crede che sia inevitabile. Come spesso accade, intanto, a fare le spese della paralisi diplomatica è la popolazione. Non solo la fame, anche tossicodipendenza e depressione. Non solo la mancanza di lavoro, anche la vendita di organi e di spose bambine. Un presente che sa di passato.