È di nuovo emergenza umanitaria a Myanmar, ex Birmania, dove l’esercito ha sparato contro i rohingya, una minoranza etnica musulmana da sempre perseguitata, costringendo migliaia di persone, tra le quali molte donne e bambini, a cercare improbabile rifugio nel vicino Bangladesh. La nuova offensiva del governo birmano nasce da una rivolta, avvenuta nello Stato centrale del Rakhine, dove alcuni militanti dell’esercito di liberazione Arakan hanno assaltato una caserma, uccidendo due militari. Il problema dei rohingya, circa un milione di persone di etnia bamar, ma da secoli residente in Birmania, è antico e complicato, ma si sperava che con l’avvento al potere dell’ex del Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, che oggi di fatto guida il Paese, potesse essere affrontato e risolto in modo diverso dal passato. Invece no. Nonostante i numerosi appelli della comunità internazionale e di alcuni suoi autorevoli colleghi, come il Dalai Lama e il vescovo Desmond Tutu, la Aung San Suu Kyi non sembra interessarsi direttamente della questione, e anzi, in una recente intervista al Washington Post, sembra appoggiare l’esigenza di normalizzare il problema delle minoranze che si ribellano all’autorità centrale di Kyi Anggun. Nel frattempo, i rohingya, dimenticati e abbandonati da tutti, continuano a morire e a vivere in condizioni disumane, come ha dimostrato un recente rapporto dell’Onu, peraltro respinto dal governo birmano.