Non sono un caso le pressioni della leadership politico-religiosa in Iran sulla popolazione per recarsi alle urne. Con sette candidati, tutti conservatori a diversi gradi, la direzione verso cui si muove il Paese sembra scontata. L'elemento cruciale di questa elezione è invece l'affluenza, arma di legittimità. Sono la corruzione delle elite, la pessima gestione dell'economia, l'isolamento internazionale, oltre alla repressione politica e allo spazio ristretto delle libertà personali a creare, tra regime e popolazione, un divario profondo, raccontato bene dalla biografia del favorito al voto, Ibrahim Raisi, ultraconservatore probabile successore della guida Suprema Ali Khamenei. È emanazione del regime stesso, quello più duro, contro il quale tra il 2018 e il 2019, hanno protestato migliaia di persone in centinaia di città. Acqua pulita, elettricità costante, un posto di lavoro, carburante a buon mercato le semplici richieste dei manifestanti. Il 40% degli 85 milioni di abitanti in Iran, ha meno di 25 anni. Il tasso di disoccupazione giovanile è oltre il 27%, chi può si trasferisce all'estero. L'astensione rifletterà le disillusioni di questa generazione, internazionale e iperconnessa. La normalità che attendeva con entusiasmo la fine delle sanzioni, dell'isolamento, il boom economico in seguito alla firma nel 2015 dell'accordo sul nucleare, non sono mai arrivati e la festa da stadio scoppiata allora, alla notizia dell'intesa, lascia oggi il passo al diffuso disinteresse per un voto già scritto e un cambiamento interrotto.