Storia di Mohamed Keita, da giovane rifugiato a fotografo

15 apr 2019
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“La passione della fotografia è iniziata quando dormivo in strada. Quando ero piccolo quello che mi piaceva era giocare a calcio e anche cantare. Questo viaggio mi ha insegnato tante cose, però non avevo il mezzo per raccontarle. Quello che mi interessa sempre è condividere attraverso le immagini”. La guerra, la fuga, il mare, la strada, la solitudine estrema, poi il riscatto. Mohamed Keita è un ragazzo ivoriano di 26 anni che oggi vive a Roma ed è un fotografo I suoi scatti sono stati esposti alla Camera dei Deputati a Milano, Londra, New York e tra pochi giorni arriveranno alla Biennale di Venezia. Tiene workshop di fotografia in diverse città italiane, ha aperto una scuola in Mali e sta per inaugurarne un'altra in Kenya Lo incontriamo a Roma durante una sua lezione nel centro che lo ha accolto quando, ancora bambino, è arrivato in Italia. “C’era un ragazzo di Salerno che studiava alla scuola di fotografia romana qui a San Lorenzo. Si chiama Benedetto, ci ha insegnato un po’ come funziona la macchina fotografica”. La prima foto di Mohamed e anche quella da cui è iniziata la sua carriera, è nata dentro la stazione Termini, dove ha dormito per 3 mesi e 20 giorni appena sbarcato in Italia. Un cartone, una coperta, uno zaino. “Ho pensato di fare la foto del bagaglio. È bello anche di ricordare quella condizione, perché ricordandola mi eviterà di fare alcune scelte sbagliate. Tutto quello che faccio attraverso la fotografia è grazie a quella foto”. La prima scelta Mohamed l’ha fatta a soli 13 anni quando, rimasto solo, ha lasciato il suo villaggio in Costa D’Avorio. “Durante la guerra ho perso i miei genitori, è caduta una bomba sulla nostra casa che l’ha fatta crollare. Io ero lì insieme con loro, solo che quando ho sentito il rumore sono uscito fuori e questo mi ha salvato. Quando un bambino non ha i genitori devi stare molto attento perché la vita è molto pericolosa, basta frequentare le persone sbagliate. Io ho cercato sempre anche in momenti difficili, di ricordarmi quando ero con i miei genitori. Cosa mi insegnavano? Mi insegnavano il rispetto. Mi hanno insegnato a nuotare da solo”. Ha attraversato confini e Paesi diversi ancora bambino. Poi il mare quando non aveva più nulla, niente da lasciare e nessuna prospettiva. “Siamo venuti con una barca che era piccolina, 32 persone, c’erano anche due bambini. Io non ho mai avuto paura. La vita non mi interessava, quando uno soffre troppo a volte è anche meglio di... Dopo pensi che questo è sbagliato, la sofferenza ti fa odiare tante cose, anche le cose belle”.

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