Quel “maybe”, quel “forse” con cui l’aveva definita l’Economist resta fuori dalla porta e definitivamente nel passato. A Lancaster House, Theresa May si presenta con andatura decisa e idee chiare. E la Brexit si riempie di contenuti: via dal mercato unico, partecipazione parziale tutta da definire all’unione doganale; basta con la Corte di giustizia, neanche un pound per il bilancio comunitario. Soprattutto, chiavi saldamente in mano. Le porte d’ingresso dell’Isola si apriranno se, quando e come deciderà Londra. Basta all’immigrazione dei cittadini comunitari: “accoglieremo i migliori”, scandisce lei, “vogliamo un accordo rapido per chi è già qui”, promette ancora. Ma il guanto di sfida è lanciato. Questo è quello che vuole la Gran Bretagna, che avvisa Bruxelles: un accordo punitivo non sarebbe da amici e non converrebbe a nessuno: “a un cattivo accordo, preferiamo nessun accordo”. Riferimento velato alla possibilità di diventare una sorta di paradiso fiscale, anche se la mano è tesa, ma è poesia più che prosa. “Noi lasciamo l’Unione europea, ma non lasciamo l’Europa”. Rimane l’impegno su sicurezza e anti-terrorismo. Arriva l’impegno a far votare il Parlamento sul testo, che sarà mediato con Bruxelles. Ed è su questo impegno che la sterlina si riprende. Intanto, nel Paese, l’opposizione non manca. La scozzese Nicola Sturgeon scandisce: “questo piano non è nel nostro interesse nazionale”, e minaccia un secondo referendum per l’indipendenza. Il leader laburista Jeremy Corbyn mette in guardia sul rischio che l’economia britannica diventi di fatto un’economia off-shore. E poi i sindacati, che avvisano: “con l’uscita dal mercato unico sono a rischio milioni di posti di lavoro”. Un discorso ascoltato con attenzione in tutta Europa, soprattutto a Bruxelles, con il negoziatore della Commissione Europea, Michel Barnier a sottolineare “noi siamo pronti quando lo sarà Londra. Non ci possono essere negoziati se prima non attiva l’articolo 50”.