Dimissioni domani, congresso ad aprile e voto a settembre. L’idea di Matteo Renzi è accelerare su tutti i fronti. La minoranza Pd però frena a tutto campo. Il voto? Si può arrivare a scadenza naturale nel 2018. Il congresso non deve essere una “gazebata” ma un vero confronto sulle idee, da attuare secondo i tempi dettati dallo Statuto. Si andrebbe dunque a dicembre. Se Renzi dovesse forzare, avverte Roberto Speranza, potrebbe non riuscire a evitare la scissione. In platea potrebbe tornare, dopo una lunghissima assenza, anche Massimo D’Alema. Comunque vada, quello di domani sarà uno snodo cruciale per i prossimi mesi. Al Paese, è il mantra dei renziani, servono elezioni per chiudere una legislatura finita il 4 dicembre. Sulla data del voto però pesano molteplici variabili, prima fra tutte il puzzle della legge elettorale. Non c’è una proposta unitaria del Pd, si viaggia in ordine sparso, e le varie proposte anche da parte degli altri partiti risentono di alti tassi di calcolo e convenienza politica. Fuori dai giochi di palazzo c’è poi la situazione economica stagnante che spingerebbe per una ventata di chiarezza nel medio periodo. Ma nell’immediato impegna il Governo a studiare misure di correzione dei conti che richiedono tempo e danno fiato al partito del 2018. Tanto è vero che a chiedere di porre fine a quello che ritengono un accanimento terapeutico sono i renziani più ortodossi, il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord.