Safe Harbor, porto sicuro, fino ad oggi i big tech potevano svicolare dai tentacoli della tassazione europea grazie a questo trucco normativo che gli permetteva di avvantaggiarsi del regime fiscale più conveniente, sottraendosi ad eventuali accordi internazionali. Ma al di là dell'Atlantico molte cose sono cambiate negli ultimi mesi, a partire dell'amministrazione e non a caso la nuova segretaria al tesoro, Janet Yellen, ha informato i colleghi del G 20 la scorsa settimana, dell'intenzione degli Stati Uniti di non garantire più i Safe Harbor ai giganti della Silicon Valley, aprendo alla possibilità di un accordo in sede OCSE per una tassa digitale globale che vari Amazon, Google, Apple e Facebook dovrebbero pagare non solo dove hanno la sede legale o il quartier generale, ma dove operano, un'imposta su cui l'Italia quest'anno con la presidenza del G20 potrebbe avere un ruolo di impulso centrale, tanto che il ministro dell'economia, Daniele Franco, ha precisato che un'intesa in tal senso potrebbe arrivare già in estate. Tuttavia la cautela è d'obbligo perché i big Tech sono pronti a dare battaglia sapendo di poter contare su un'influenza non indifferente anche con la nuova amministrazione, basta guardare i dati di Open secret ad esempio per capire che proprio dalla Silicon Valley sono arrivati i finanziamenti maggiori per la campagna di Joe Biden, senza contare il silenziatore che Twitter, Facebook e YouTube hanno messo all'ex Presidente Trump dopo i fatti del 6 gennaio. Ma proprio l'assalto al Campidoglio, ruolo fondamentale giocato dai social media nell'alimentare pericolose fake news in un anno di pandemia, rendono il momento particolarmente propizio per provare ad intaccare i privilegi ingiustificati e sono diversi i governi apertamente sul piede di guerra, a partire dall'Australia che ha recentemente imposto a Google e Facebook di pagare agli editori per i contenuti delle diverse testate disponibili sulle loro piattaforme, un'unione europea, da sempre in prima linea, dallo scorso dicembre anche con la nuova proposta normativa che prevede multe per i colossi del web fino al 10% dei ricavi globali per chi non rispetta la concorrenza e fino al 6% per chi non rimuove i contenuti illegali pubblicati dagli utenti, ma anche negli Stati Uniti qualcosa si muove con le indagini in corso dell'Antitrust del Dipartimento di Giustizia o anche con piccoli ma significativi segnali come la tassa sui ricavi degli annunci pubblicitari visualizzati all'interno dello Stato, decisa un paio di settimane fa dal Maryland, Davide potrebbe non essere più solo contro Golia.