Sky Inclusion Days - Sarà solo la fine del mondo

17 mag 2023
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"Ora noi lasciamo il palco a uno degli attori più pregevoli del cinema e del teatro italiano, che sale su questo palco per leggerci un testo di Liv Ferracchiati, fate un grande applauso a Vinicio Marchioni". "Ciao, Vinicio". "Grazie, maestro". "Sono le sette e trenta della mattina, siamo in aprile e la giornata è appena iniziata ed è decisamente primaverile. In una maniera persino stereotipata, infatti gli uccellini cinguettano, le nuvolette bianche si stiracchiano nel cielo terso, le rondini volteggiano nella perspicuità azzurrognola e altre cose così. Le rondini, nello specifico, disegnano precise figure sospese, mentre le colline, da parte loro, sembrano rilucere di un'esultanza di verdi chiari. I fiori addirittura si schiudono, scrollandosi di dosso la rugiada. Le api, allora, gli succhiano immediatamente via il nettare e la vita torna, insomma, a palpitare con una tale grazia che io, sopportando la grazia fino a un certo punto, mi trovo costretto a scomodare la parola perspicuità, dal suono aperto e ostile, solo per mitigarne l'effetto. Lettore, hai mai parlato con qualcuno che non è ancora nato? Ecco un'occasione: puoi parlare con me, perché siamo al 22 aprile del 1984 e io non sono stato ancora nemmeno concepito. Per una stravagante coincidenza oggi è il giorno di Pasqua e quindi non solo c'è la primavera che porta la vita, ma addirittura la fede ci consegna il miraggio della Resurrezione. Ho vissuto, ho sofferto, sono morto, ma poi risorgo, e con la promessa della vita eterna. Io non ci credo, tanto che, per caso fortuito, a otto anni ideerò il buddhismo. Proprio tra me e me, proprio come una frangia indipendente. Non sto affermando di essere un futuro Buddha, solo che, a otto anni, spontaneamente ideerò una nuova religione, tutto qui. Succederà per caso, di pomeriggio, quando sarò in macchina ad aspettare che mio padre compri una cassa d'acqua al supermercato. Mi sembrerà ingiusto vivere una vita sola, mi apparirà completamente illogico e per nulla democratico, perché magari sarebbe potuto capitare di nascere sani, ricchi e fortunati, e allora la vita sarebbe stata bella, ma se fosse capitato di nascere malati, poveri e scalognati? Ecco, allora la vita sarebbe stata breve, terribile e triste. Non poteva andare davvero così: nessuno, tantomeno un Dio, lo avrebbe permesso. Poi, voglio dire, altra obiezione: e se tu, dico tu generico, fossi nato con un corpo che non ti piaceva? Beh, allora a quel punto sarebbe stato doppiamente ingiusto. Perché potevi nascere bello e in un corpo in cui stare comodo, ma potevi anche nascere brutto e in un corpo in cui stare scomodo. Probabilmente, solo per logica di giustizia dico, doveva essere così: una volta nascevi maschio e l'altra nascevi femmina, per esempio. Una volta nascevi bello e l'altra brutto, una volta eri un sasso e la volta dopo una tigre, una volta eri un mendicante e la volta a seguire un imperatore. E non so perché mi vengono in mente solo categorie in voga principalmente nel 200 avanti Cristo, ma probabilmente c'era una vita per ognuna di esse. Queste esistenze andavano evidentemente vissute tutte, una dopo l'altra. Dopodiché, quando l'avevi consumate, ti potevi fermare e raggiungere la pace assoluta. Qualcuno ci aveva già pensato prima di me e l'aveva chiamato Nirvana. Io però non ne sarei stato al corrente per lungo tempo, perché avrei sentito parlare solo di Dio, dello Spirito Santo, di Gesù, della Madonna, ma la faccenda di vivere, soffrire e resuscitare non mi sarebbe mai quadrata, tanto. Certo, conoscendomi, avrei sprecato subito tutte le vite buone e avrei lasciato solo quelle meno desiderabili, quelle che nessuno vuole vivere. Non so, magari quella dove muori giovane, ecco, in seguito a una malattia fulminante che spezzerà il cuore a te e ai tuoi cari. Quella in cui nasci in aree a clima tropicale e ti fa fuori la puntura di una zanzara. Quella in cui va tutto benissimo, sei bello, forte e in piena forma, ma, proprio all'apice del tuo potenziale passi sotto una finestra mentre un gatto balza distrattamente su un davanzale e una pianta di gerani ti prende esattamente in testa, da un quarto piano, così, dopo aver perso i connotati appena in seguito a un lieve miglioramento che, neanche a dirlo, riaccende la speranza in tutti i tuoi parenti e pure nei dottori, muori. Ma qui ci troviamo prima della morte, addirittura prima della vita, io che ti sto parlando sono addirittura prima del concepimento, sono ancora un nonnulla, mi cullo in una dimensione eterea, attendo di capire quale sarà la mia prossima corsa. Vuoi sapere che cosa c'è, lettore, in questa dimensione? Sei un po' curioso? Io lo sarei, perché nessuno ne ha mai parlato con certezza, nessuno ricorda niente, io però sono qui ora e, tra evidenza scientifica ed esperienza empirica, posso raccontartelo. In questa dimensione d'attesa non c'è nulla, lettore, tutto è fermo, eppure scorre e quando dico tutto intendo proprio il Tutto. Hai presente l'Uno Primigenio? Sai che Tutto era compresente? Che la lacerazione del Nulla portava all'Ente? Qui è così, ogni cosa sta e si muove, con e senza forma, la potenza vibra e io mi rilasso, sono tanti frammenti, sono in tutte le cose, non ho identità, non sono individuato, al massimo dell'inizio io non sono io. Tutto ciò per cui ci battiamo in vita, qui non conta. Non esiste proprietà, non esiste desiderio, non esiste confine, si sta, eppure tutto oscilla, portentoso, si gode e si geme nello stesso autentico attimo. Non è male, né bene, è solo perfezione. Non più belli o brutti, la tua opinione o la mia: solo il Tutto e il Nulla nello stesso lucente istante. Io me la godo e me la ululo in questa condizione, e se penso alla vita mi chiedo: ma chi me lo fa fare? Chi me lo fa fare a mescolarmi a voi, con i vostri ritmi sostenuti, le vostre ossessioni, la vostra smania di raggiungere obiettivi, di individuarvi. Sciocchini, tutti! Qui è il Sudamerica del non-nato, si sta in una lentezza morbida e viva, ma senza le zanzare o l'umidità. Da voi, invece, è la domenica di Pasqua e suona la sveglia delle sette e trenta. Si accende la radio, sento un suono, no, no, è più di un suono, sono note architettate in una musica non esattamente dionisiaca. Sento una chitarra acustica, qualche arpeggio, una voce, un clarinetto. Qui, dove sono io, la musica è fatta con più della musica stessa, e poi è anche silenzio. Come spiegarlo? È un battito proveniente da più abissi, una vibrazione continua, come quando vengono pizzicate le corde di un basso elettrico amplificato al punto che vibra pure il pavimento. Però la canzone che sento ora esce dalla radio ed è un'altra cosa, distinguo il prendere forma delle parole, è in lingua italiana e già capisco dove sarà collocata la mia prossima corsa: ma che bel sogno, era maggio e c'era caldo, dice. Ancora clarinetto e di nuovo altro testo. No, non è italiano, forse la prossima corsa sarà in Namibia? Noi sulla spiaggia vuota ad aspettare. No, sono concentrato sulla ricerca del ceppo linguistico, è quello indoeuropeo, ne sono certo. No, no, forse sono le lingue khoisan, con le consonanti clic, boh, non lo so. Sia fatto di me, geograficamente, quel che deve essere fatto, ma anni dopo avrei scoperto che la voce apparteneva a un cantautore italiano, dal gusto vagamente jazzato, conosciuto con un cognome d'arte preso in prestito dalla nonna cantante lirica. Il brano però che ritengo il suo capolavoro, è straziante come il canto di un tropicalista che scoppia senza preavviso al chiaro di luna della notte. In questa canzone, il suo capolavoro vero, ci sono due che, dopo tanti anni, si ritrovano su una stradina sotto il sole, lui osserva lei, cerca di capire se è cambiata, gli sembra di no, poi gli sembra di sì. Sì, lei è cambiata nel senso che è più bella di come se la ricordava, ma è mai possibile essere più belli? E allora lui è vergognosamente felice di ritrovarla e di ritrovarla proprio lì. Le chiede se ricorda la trattoria, quella in cui andavano a mangiare, e mentre glielo chiede, in mezzo al profumo di lavanda che cresce tutt'intorno, sente una fortissima nostalgia. La trama, voglio dire, di sé per sé è banale, è come viene trattata che fa la grande differenza. Non mi è mai importato niente delle trame. In un attimo è chiaro: vogliono tornarci e vogliono tornarci pedalando. Lui, però, è velocissimo nella bicicletta. Infatti, mentre le sta davanti, sente i sassolini che schizzano via sotto le ruote colpire il parafango anteriore della bici di lei. Allora gli torna in mente di colpo: come aveva potuto dimenticarlo? Lei era lenta, lentissima. Lui doveva sempre aspettarla. Frena un po', smette di pedalare, stende la gamba destra mentre la catena va e, senza voltarsi, rallenta. Ho sempre interpretato questo giudizio di lentezza su di lei come addossarle affettuosamente una colpa. Forse per la fine del loro amore? Per questo sono stati separati così a lungo? Perché lei non è stata abbastanza veloce? Insomma, sono ormai alla trattoria, scendono dai rispettivi sellini senza smettere di guardare quel che c'è davanti. In piedi, appoggiati ai manubri delle bici, una di fianco all'altro, fissano le stesse cose. Il pergolato, i tavolinetti che sembrano essere ancora gli stessi, e sentono una stretta allo stomaco, entrambi nello stesso momento. Quante volte erano stati lì? Da quanto tempo non ci tornavano? Cos'era successo? Com'era successo che le loro strade avevano preso direzioni differenti? Lui si guarda intorno, più giù c'è il mare e sulla terra secca batte il sole che l'ha resa arsa. Si sofferma ancora un po' a osservare le macchie violacee dei fiori di lavanda. A lui sembra che il tempo si sia fermato e, per il magone, respira così profondamente che lo sente, proprio in quel momento, è inebriante: c'è il profumo che tu sai, dice la canzone. Questa breve frase racchiude il picco poetico. È un vertice: il profumo che tu sai, quell'odore che in maniera proustiana riporta a momenti del loro passato, che solo lei e lui condividono in modo esclusivo, momenti dal significato vibrante. Per chiunque altro sarebbero odori, ma per loro è un segmento di vita che li ha resi felici e poi spezzati. E ora, dopo tutto quel tempo, dolore e felicità sono compresenti, come nell'Uno Primigenio. E comunque, malgrado la mia indubbia capacità di fare esegesi, non sarei diventato un accademico e nemmeno una persona romantica, ma sicuramente le mie playlist avrebbero alternato, con disinvoltura, per esempio Kreisleriana di Schumann e poi, sempre per esempio, Fabio Concato. Sarei diventato, insomma, uno culturalmente sincretico. Ma torniamo al mio concepimento, a un uomo e una donna che dormono in un letto. A quando si accende una radio e un successo di quel momento si diffonde attraverso le onde sonore. La donna apre gli occhi, allunga una mano e arriva a toccare la coscia dell'uomo che dorme immobile, a pancia in su. Lui apre appena l'occhio sinistro, percepisce la mano sulla gamba, sente la canzone, muove il labiale automaticamente. La giornata primaverile e la melodia lo inteneriscono, prende coscienza poco a poco e capisce che la mano sulla gamba è quella di sua moglie; gli viene in mente che è domenica, in particolare la domenica di Pasqua. Allora getta un'occhiata sull'orario: sono le sette e trenta della mattina, perché si stanno svegliando così presto? È ora, dice lei. L'uomo si alza, va in bagno a lavarsi la faccia e, quanto torna, la moglie è già nella sua posizione, con le gambe in su: se le tiene divaricate con gli avambracci e attende. Tu che sei nata dove c'è sempre il sole, sillaba lui dentro di sé, accentando bene per caricarsi, e nel frattempo si toglie le mutande con professionalità. Alla radio intanto va in onda un dibattito sull'appena costituitosi movimento politico autonomista nella Capitale del Nord. Un movimento, a quanto pare, separatista e dagli echi fascisti. Mentre lascia cadere distrattamente le mutande a terra, sente un moto di sdegno, coglie lo sguardo di rimprovero della moglie e dunque le raccoglie, piega e appoggia sul comò. I fascisti si trasformano e ricreano continuamente. Ma finiranno mai? Si ritrova a pensare fissando la moglie senza guardarla per davvero, con tutte e due le mani puntellate sui fianchi. L'uomo comunque viveva nel Centro della sua nazione, non nel Nord, e in quel momento doveva occuparsi di ben altro. Lui doveva cantare, dentro di sé, il successo musicale di quel momento, e compiere con la moglie il proprio dovere coniugale. L'uomo è, dunque, molto concentrato e, come dicevo, canta tra sé e sé: e quel sole ce l'hai dentro il cuore, sole di primavera... fatto. Via. Si riversa sul fianco, è stato veloce, meglio così. Tregua. Sua moglie gira su se stessa per appoggiare le gambe in alto, con i piedi contro il muro, sopra la spalliera del letto. Lui si addormenta avendo dato tutto, ma dopo un po' sente di nuovo una mano sulla sua coscia. Dai, dice lei. E ti ricordi, c'era un paese in festa, pensa lui per ricaricarsi, così ricomincia. Canticchia, ancora, affaccendato. In effetti, il concepimento non era avvenuto la prima volta, ma loro non potevano saperlo, lo facevano per prevenzione, lungimiranza, eccesso di zelo. Lui si muove, ma per muoversi, nella sua testa scorre ancora il brano musicale, precisamente nel punto: o a casa di mio fratello, non lo ricordo più, con la u prolungata e molto prolifica perché, mentre lui canta mentalmente questa u e pensa che, di fatto, è figlio unico, tac, succede. E il miracolo accade, tanto che lei ha un'epifania, proprio lo sente e dice: stavolta è successo. Come fai a saperlo? Chiede il marito alla moglie. Me lo parla il sangue, dice lei, utilizzando quell'espressione tutta sua. La donna, senza badare all'altro individuo nel suo letto, si gira velocemente su se stessa e appoggia i piedi in alto, contro il muro, sopra la spalliera. L'uomo, allora, si addormenta di nuovo, ma dopo un po' gli sembra di percepire ancora delle dita che sfiorano svogliatamente i peli della coscia. Ancora una volta? Chiede lui. Solo per sicurezza, gli dice lei. Grazie mille. Grazie. Oggi, tra le altre cose, è anche la festa della mamma. Auguri a tutte le mamme, naturalmente, ma non tutte sono mamme, ma una cosa che siamo tutti, c'è. Tutti e tutte. Siamo figli e figlie. Siamo stati, tra le altre cose, piccoli, bambine, bambini. Provate a spiegare ad un bambino che cosa vuol dire inclusione. Probabilmente, non lo capirebbe. E lo sapete perché? Perché per un bambino non è così immediato includere, dato che per lui non è naturale escludere. C'è un lungo un momento delle nostre vite, in cui siamo guidati dall'intelligenza nativa, che è una specie di metabolismo naturale, per cui siamo spontaneamente tutti uguali. E viviamo una lunga fase in cui non sono le parole ad orientarci nel mondo, ma sono i gesti, i sorrisi, gli abbracci, le espressioni del volto. Provate a spiegarmi la differenza che c'è tra un abbraccio inclusivo ed uno discriminatorio. Non c'è. Semplicemente perché quando nasciamo non siamo razzisti, non siamo maschilisti, non siamo esclusivi. Siamo e basta. E abbiamo bisogno degli altri per poter crescere, e ci basta. I bambini toccano, si arrampicano, si cercano, si trovano, si nascondono. Nel nostro istinto, il confine non è una barriera, ma è un orizzonte da esplorare. Siamo esploratori del mondo e di noi stessi, e lo continueremo ad essere per tutta la vita, anche se qualcuno se ne dimentica. Le parole di Liv Ferracchiati, che ho appena letto, raccontano di quanto sia persino ridicolo pensarsi diversi. Se ci immaginiamo tutti al cospetto di quell'istante, in cui siamo stati concepiti. Le parole ci dividono, le parole ci viziano, le parole ci separano. E pensate, quando un bambino inizia ad utilizzarle per mettere una distanza fra lui e qualcun altro, è probabilmente perché quelle parole le ha sentite da un adulto. Sicuramente, meno libero di lui. Le parole vanno usate bene e giornate come queste, sicuramente, fanno moltissimo, ma prima di dare un giudizio di valore agli atti, alle situazioni, alle parole, io vorrei cercare di riportarvi ad uno stadio precedente, quando ancora non c'era proprio questo dibattito. Recuperiamoci naturali. Facciamo che eravamo, ancora, almeno per un po', bambini. Ricordiamoci di quei gesti, di quei versi, di quegli abbracci, di quella spontanea curiosità, a superare le barriere, a scoprire, a scoprirsi noi stessi, attraverso gli altri. Essere, è essere percepiti, scriveva Samuel Beckett. Andare incontro all'altro, è semplicemente un istinto naturale, di ogni essere umano. Grazie". "Grazie a Vinicio Marchioni, grazie. Adesso aspettiamo, scambiamo soltanto due parole che poi ci separano, sono sempre le parole più lunghe, quelle che poi ci separano a un piccolo buffet, e tutti voi che siete rimasti qua, siete nostri ospiti. Io sono Omar Schillaci, sono vice direttore di Sky TG24. Che bambino eri?". "Introverso, silenzioso, taciturno, una sega a scuola, perché da una parte ero molto timido, però da un'altra parte avevo necessità di rompere qualsiasi cosa, insomma, quindi, abbastanza complicato, diciamo". "Visto che è un po' il sottotitolo, insomma, i figli non uguali ai genitori, nel tuo rapporto con i tuoi genitori, come ti sentivi?". "Non lo so, è una domanda difficile per me, nel senso che li ho vissuti... mi ricordo di averli vissuti pochissimo, nel senso che lavoravano entrambi. Mi ricordo giornate intere da solo dentro casa, ad occuparmi di mio fratello che era un po' più piccolo. Poi abbiamo perso nostro padre da piccoli, quindi mia madre ha dovuto lavorare, quindi mi ricordo di una famiglia che per un periodo è stata unitissima, e poi si è sfasciato tutto quanto, insomma. Quindi è stato un po' complicato per me, ricostruirmi un'idea di famiglia. Forse ci sono arrivato molti anni dopo, con un grande percorso anche, proprio di... un percorso dentro di me per riuscire a ritornare a credere, in qualche modo, nell'istituzione familiare, in tutto quello che rappresenta la famiglia, insomma". "E siccome non tutti siamo mamme e neanche tutti siamo papà, ma sicuramente siamo tutti figli, che cosa, di questa fase di recupero, ti sei poi portato nella tua famiglia, quella che hai oggi?". "Mah, il tentativo del dialogo. Siccome io ne ho avuto molto poco con i miei, con i nostri figli da subito abbiamo cercato di insegnargli il dialogo, abbiamo insegnato che ci possono dire tutto quanto, qualsiasi cosa, anche le cose più brutte. Poi, chiaramente, i figli è anche normale che attraversino un'età in cui le devono dire, anche, le menzogne, ed è anche naturale che sia così, però il dialogo è una delle primissime cose che ancora oggi insisto, insisto, insisto". "E come si insegna, in qualche modo che, diciamo così, una cultura inclusiva, perché in verità poi i bambini, appunto, non nascono discriminatori, non discriminano, quindi, la stessa parola non ha un significato, cioè". "Ma infatti, credo che con i figli, perlomeno per l'esperienza mia, facciano quello che loro guardano, non quello che loro ascoltano. Nel senso che fanno quello che tu fai, non quello che tu gli dici, e credo che l'esempio, in questo senso, sia più importante di mille parole. La nostra casa è aperta da sempre a tutti, siamo fortunatamente una famiglia di attori, di artisti, la casa nostra è aperta realmente 24 ore su 24, a chiunque, perché conosciamo persone che hanno bisogno per alcuni periodi di un'ospitalità, le vacanze di Natale sono vacanze in cui recuperiamo, anno per anno, persone che magari stanno attraversando periodi difficili, amici, amiche... due anni fa è stato una settimana con noi un amico che usciva da una situazione sentimentale molto complessa ed è stato da noi, e quindi passano dentro casa da sempre attori, attrici, artisti, teatranti, scenografi, costumisti, danzatori, danzatrici di tutti i generi, di qualsiasi tipo, uomini, donne, preferenze sessuali o colore, di genere, di religione e i nostri figli sono cresciuti in mezzo a tutti quanti, e questo, loro hanno 11 e 12 anni, non solo se lo ritrovano nella vita, mi sembra, ma gli ha dato anche una curiosità e un dialogo, perché, naturalmente, ognuna di queste persone parlando dentro casa con noi, raccontava i loro mondi e loro ascoltavano ed assorbivano qualsiasi cosa". "Oggi abbiamo ascoltato durante questa lunghissima giornata tantissime storie, storie di figli, di genitori, genitori affidatari, genitori adottivi, genitori naturali, storie di figli omosessuali, transessuali, eterosessuali, e mentre ascoltavo queste storie io pensavo: ma che cosa, di queste storie, come dire, può ledere la mia libertà? In che cosa mi posso sentire minacciato? In che cosa sono, diversi sì da me, nel senso che siamo tutti diversi, no? Ma che cosa c'è che mi fa sentire a disagio o minacciato? Che cos'è che ci fa sentire a disagio o minacciati? Perché, quella è semplicemente la storia di un'altra persona". "Non lo so, perché non mi sono mai sentito ledere da nessuna parte e da nessuno. Penso che, chi si sente sottratto di qualcosa, attaccato, penso che lo faccia per un'insicurezza e perché abbia completamente perduto quella curiosità di cui parlavo prima, abbia completamente perduto quell'intelligenza nativa, istintiva, che ci porta a scoprire quello che c'è più avanti da noi, quello che è completamente diverso da noi. Penso che quella frase di Samuel Beckett sia fondamentale. Essere, è essere percepiti. Se non mi guarda nessuno, io non sono nessuno. Se io non mi confronto con un'altra persona, io non posso capire chi sono. E questo tipo di confronto, chi lo evita, chi ne ha paura è perché, forse, non vuole vedere qualcosa di se stesso. E penso che, in fondo in fondo, abbia anche la coscienza di quanto è brutto dentro, da qualche parte". "Di quel testo bellissimo che hai letto, c'è, appunto, questa morale, diciamo così, no? C'è un momento, prima di tutto, in cui, alla fine, siamo tutti uguali, no? Siamo tutti la stessa cosa e poi la diversità, come dire, avviene ma la diversità è una parola e non è una parola, naturalmente, negativa". "Ma no, ma la diversità è quello che mi fa rendere conto di chi sono io, perché se io non lo so chi sono quando nasco, non so niente, come dicevano le parole di Liv. Non so dove nascerò, non so che cultura avrò, non so che cos'è il mio corpo, non so che cos'è essere maschio o femmina, non so niente. Sono una lavagna bianca. È il confronto con gli altri, con qualsiasi altro da me, che mi fa capire chi sono, che ovviamente crea un incontro, un confronto, e solo alla fine, forse, uno scontro che ci può anche essere, perché anche attraverso uno scontro i ragazzini capiscono, mettono in gioco la rabbia, capiscono chi è più forte, capiscono i limiti di qualsiasi tipo di cosa. Mi sembra che oggi, uno dei rischi maggiori sia che si passa immediatamente allo scontro, senza passare per l'incontro ed il confronto, e questa cosa crea immediatamente... se io e te dovessimo litigare, io e te non ci sentiremo mai più, ma questa cosa è una follia, perché noi possiamo anche scontrarci su mille cose, però questo non vuol dire che non possiamo continuare a confrontarci, ad incontrarci. Mentre oggi, quello che percepisco è con noi o contro di noi, sempre e comunque, che è una visione manichea della vita e che, soprattutto, non dà la possibilità a noi, di continuare a crescere con quello spirito di cui parlavo prima, di scoperta del mondo e di noi stessi, ma che passa sempre attraverso gli altri". "Prima di salutarci, voglio farti un'ultima domanda perché il tuo lavoro, proprio di attore, di regista, di sceneggiatore è incontro, incontro con delle storie, incontro con delle persone, è fatto di fisicità, di materia anche, no? Dei tanti incontri, chiamiamoli così, che hai fatto, c'è stato qualcosa che ti ha segnato in maniera particolare? Una storia, un incontro, un qualcosa che a livello personale ti ha proprio... ti porti sempre un po' dentro?". "Mah, forse sono stati due che mi vengono in mente così: una con Roberto Latini, che è un grandissimo regista, attore teatrale; perché Roberto mi ha insegnato il gioco, mi ha insegnato la leggerezza in questo mestiere, che non avevo, perché insomma, quando si fa una scuola di teatro molto classica, si esce... poi quando c'hai 20-25 anni, hai l'impressione che tu sia l'ombelico del mondo, che le tue prove siano la cosa più importante del mondo, quindi c'è tutta una, come dire, prosopopea del fare teatro, il gran teatro, sai? Lui, invece, mi ha insegnato la libertà, mi ha insegnato il gioco, mi ha insegnato la grande leggerezza". "Che riporta poi bambini". "Assolutamente, sì. E Luca Ronconi, invece, il maestro Luca Ronconi, qui al Piccolo di Milano, mi ha insegnato che senza l'incontro, senza il confronto e senza lo scontro non c'è azione; se non c'è uno scontro reale, non ci può essere nessun tipo di azione teatrale. Però, affinché ci sia uno scontro, uno deve comprendere, veramente, chi ha davanti a sé, deve aver provato a confrontarsi e poi, alla fine, se mai c'è uno scontro, ma che è utile per tirare fuori ancora delle cose che servono per conoscersi, e questa cosa lui l'applicava a qualsiasi tipo di ... che decideva di mettere in scena e l'applicava in tutte le scene, in tutti i dialoghi. Lui lo diceva sempre: questi due personaggi, su che cosa stanno parlando? Di cosa parlano, oltre quello che c'è scritto sulla scena? Di cosa stanno parlando? Qual è la mancanza di uno dei due? Qual è lo scontro? E questa cosa è stata un grande insegnamento, anche nella vita, perché non si ha paura dell'incontro, non si può avere paura del confronto, perché è solo attraverso di te, ma anche in questo dialogo qui, io mentre ti dico quello che sto pensando, mentre lo dico, mi aiuta a comprendere se veramente ci credo in quello che sto dicendo, è uscito fuori da qui, posso dire: beh, sì. Quello che ho detto era giusto, sì. O altrimenti no, cioè, voglio dire, è sempre attraverso un confronto che uno mette continuamente sotto discussione le proprie idee. Chi si toglie da qualsiasi tipo di confronto, è perché non vuole mettere in discussione le proprie idee, e si entra in un terreno di chiusura, di aridità, di non crescita, dove non batte il sole mai, non so come dire". "Io, Vinicio, ti ringrazio innanzitutto". "Grazie a voi, grazie a te". "Io mi auguro che questa giornata sia stata, una giornata per tutti di apertura". "Assolutamente". "Di confronto. Io mi auguro che, magari, per qualcuno, sia stato anche un motivo di scontro, magari anche personale, di mettersi un po' a confronto con qualcosa che mette un po' in contraddizione, nella vita c'è bisogno anche di questo per crescere. Queste giornate di incontro, scontro, confronto, continuano domani. Riprendiamo sempre da qui, con gli Sky Inclusion Days, genitori non uguali ai figli. Da domani mattina, alle 10, sarà un'altra lunga giornata che ci accompagnerà, se avrete voglia vi aspettiamo, se non avete voglia vi aspettiamo uguale, perché noi tanto siamo qui. Non ci sarà Vinicio, che però ringrazio, grazie per la lettura". "Grazie a voi, grazie davvero". E adesso, appunto, ci vediamo nel chiostro per tutti coloro che avranno voglia di condividere un momento insieme. Grazie".

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