Nei primi anni i negoziati sul clima quindi soprattutto negli anni 90 erano caratterizzati da un approccio che potremmo definire top-down. Cosa significa? Significa che sostanzialmente si cercava di imporre o comunque di incoraggiare i paesi industrializzati ad adottare determinati target di riduzioni delle emissioni oppure in essere determinate misure. Questo senza un coinvolgimento particolarmente attivo dei paesi in via di sviluppo e appunto cercando un po' di suggerire dall'alto quelli che potessero essere degli obiettivi adeguati. Con, diciamo, il fallimento di Copenaghen nel 2009, che fu una una conferenza, la COP15, che doveva, se vogliamo, identificare la via per il dopo Kyoto si decise di cambiare approccio perché si capì che questo meccanismo non funzionava più molto bene principalmente per il fatto che tanti Paesi in via di sviluppo, che non erano direttamente coinvolti con degli obiettivi di riduzione delle emissioni, avevano ormai dei livelli emissivi talmente elevati da non poter più essere esclusi dalla discussione da una parte e dall'obbligo in qualche modo di ridurre questi livelli dall'altro. Per questo motivo a partire dalla COP17 di Durban si è affermato quest'altro approccio che potremmo appunto definire al contrario, un approccio bottom-up, cioè dal basso all'alto. Un approccio dove non si cerca più di imporre ai Paesi determinati obiettivi o target di riduzione delle emissioni ma piuttosto si incoraggia ogni singolo Paese a presentare quello che ritiene essere l'obiettivo più ambizioso, raggiungibile e anche più giusto da parte del proprio Paese, sulla base di una serie di principi che riguardano da una parte le responsabilità storiche, i propri attuali livelli di emissioni ma anche le capacità di porre in essere delle misure adeguate.