Ci sono proiettili che più di altri feriscono in modo indelebile la storia collettiva, quelli esplosi nel pomeriggio del 13 maggio 1981 in piazza San Pietro ne sono esempio palese. La cronaca di quel giorno, la storia dell'attentatore turco, il lupo grigio Ali Agca, le istantanee resteranno per sempre impresse nella memoria di ognuno di noi. La piazza gremita per l'udienza del mercoledì, le vesti papali mosse dal vento, il bagno di folla, il sorriso di quel Papa giovane eletto appena tre anni e mezzo prima, il bacio alla bimba e poi, poco dopo le 17, quei due colpi. Le vesti bianche macchiate di rosso, il Santo Padre che si abbandona, la Papamobile che corre via tra lo sgomento della folla, con a bordo un Papa insanguinato. Sono le parole e il perdono di Karol Wojtyla che quarant'anni dopo vale davvero la pena ricordare. Una mano ha sparato, un'altra ha deviato la pallottola, disse, ringraziando la Madonna di Fatima, che lo aiutò a restar vivo durante tutto il suo calvario. E poi ancora il perdono, l'incontro in carcere con Agca due anni dopo, nel Natale del 1983, la testa del Santo Padre appoggiata a quella del suo attentatore, la preghiera per lui, la stretta sul braccio in segno di appoggio, forza e misericordia. Ho parlato con lui come si parla con un fratello perdonato e che gode della mia fiducia. Quello che ci siamo detti è un segreto fra me e lui raccontò. Quarant'anni dopo il cardinale polacco Stanislao Dziwisz, all'epoca dei fatti segretario particolare di Giovanni Paolo II, ricorda quel giorno e quelli drammatici che seguirono. L'unzione degli infermi, l'anello del pescatore sfilato, quei gesti propri dell'antico rituale che precedono la morte dei Pontefici e poi la ripresa e il ritorno alla vita del Papa. A quarant'anni di distanza l'attentato a Karol Wojtyla resta non risolto del tutto. Quarant'anni dopo sono ancora molti i misteri che quel gesto si trascina dietro. Da allora non c'è giorno in cui il Cardinal Dziwisz non si domandi: ma perchè volevano ucciderlo?.