Studi scientifici lo hanno dimostrato: la plastica che arriva nei mari finisce per alterare la catena alimentare. Basta andare in un qualsiasi porto e aspettare il rientro dei pescherecci per vedere che il 50 per cento del contenuto delle reti è costituito da pezzi di plastica più o meno grandi. Sul fondo del Mediterraneo ci sono 100.000 pezzi di plastica per chilometro quadrato, ma questi sono quelli, per certi aspetti, meno insidiosi. A preoccupare tutti noi devono essere anche e soprattutto le microplastiche, i frammenti più piccoli di un millimetro. Ricerche scientifiche hanno dimostrato che pesci, molluschi e ogni specie vivente nel mare se ne cibano inconsapevolmente, mischiandosi al cibo. Indagini condotte dal Dipartimento Scienze fisiche della terra e del mare dell’Università di Siena, anche dall’ISPA CNR di Messina, hanno permesso di mappare le microplastiche e le macroplastiche, soprattutto gli effetti che queste hanno sugli animali che le ingeriscono. Ogni pezzo di plastica è come una spugna intrisa di derivati dal petrolio, ritardanti, metalli pesanti, DDT. Un mix micidiale che finisce per avere effetti sia fisici che chimici sull’organismo. Si tratta di studi dimostrati e condivisi dalla comunità scientifica internazionale, che oggi si sta concentrando sul passaggio successivo: gli effetti sull’uomo. La spigola contaminata che finisce sui nostri piatti può, a sua volta, contaminare noi uomini? Non si sa ancora. Non ci sono prove inconfutabili, ma la preoccupazione è che, sì, le sostanze tossiche contenute nelle plastiche digerite dagli animali marini possano, poi, essere trasferite all’uomo che se ne ciba.