Morti in corsia, assolta infermiera Daniela Poggiali

07 lug 2017
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Era stata condannata per un omicidio all’ergastolo in primo grado con l’ombra anche di essere un killer seriale. La Corte d’appello ora ribalta il verdetto assolvendola e disponendo, dopo quasi tre anni trascorsi in cella, la scarcerazione immediata. Ha un effetto quasi destabilizzante mettere insieme i pezzi della storia giudiziaria di Daniela Poggiali, l’infermiera quarantacinquenne accusata di aver ucciso con una dose letale di cloruro di potassio Rosa Calderoni, 78 anni, deceduta l’8 aprile 2014 all’ospedale Umberto I di Lugo, nel Ravennate. Una storia che riaffiora nella memoria, forse anzitutto per quelle foto postate sui social network dall’infermiera, che la ritraevano in pose irriverenti accanto al cadavere di un’anziana. Foto che in qualche modo, forse, avevano avuto un peso anche nel giudizio di primo grado che aveva visto i giudici della Corte d’Assise di Ravenna infliggere all’ex infermiera il carcere a vita. La donna risultava anche indagata in un’altra inchiesta avviata sulla base di una consulenza chiesta dalla Procura all’Istituto di Medicina legale di Verona. Consulenza dalla quale emergeva che dei 191 decessi avvenuti tra l’aprile 2012 e il novembre 2014, scrivevano i periti, 139 si erano verificati nello stesso settore in cui in quel momento stava lavorando l’indagata. Un anno dopo è un’altra consulenza, voluta questa volta dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bologna, a ribaltare il giudizio e il destino dell’imputata, inducendo il collegio ad assolvere la donna perché il fatto non sussiste e a disporne l’immediata scarcerazione. Dalle settanta pagine di perizia, infatti, sarebbe emerso che il quadro clinico della paziente era solo in parte compatibile con una somministrazione di cloruro di potassio a livelli letali. Daniela Poggiali, in cella dall’ottobre 2014, si è sempre detta innocente per l’omicidio di Rosa Calderoni e aveva spiegato quelle morti, due volte e mezzo superiori alle altre nei reparti dove lei aveva lavorato, con una sorta di fatalità legata ai turni di lavoro molto lunghi e intensi a cui era sottoposta.

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