È una pioggia di critiche quella che sta travolgendo la pronuncia della Cassazione su Totò Riina, quel diritto a morire dignitosamente che ora potrebbe portare il capo di Cosa Nostra fuori dal carcere di Parma. Il condizionale d’obbligo perché a decidere il 7 luglio sarà il tribunale di sorveglianza di Bologna. Certo è che le considerazioni degli ermellini della I Sezione penale potrebbero creare un precedente pericoloso. È la prima volta, infatti, che piazza Cavour apre al ricorso dei difensori del padrino di Corleone, che da anni chiedono o i domiciliari o il differimento della pena per gravissimi motivi di salute. Ipotesi negata finora dai giudici emiliani, che più volte avevano sottolineato come non vi fosse alcuna incompatibilità tra l’infermità fisica di Riina, ottantaseienne incapace anche solo di stare seduto, e la detenzione in carcere in regime di 41-bis, dato che le sue condizioni erano monitorate costantemente con continui ricoveri per esami e cure in ospedale. Nessun dubbio neanche sull’altissima pericolosità sociale e lo spessore criminale, che invece la Cassazione invita a verificare, vista l’età avanzata e le condizioni di salute. “Toto Rina deve continuare a stare in carcere e soprattutto rimanere in regime di 41-bis”, afferma il procuratore antimafia Franco Roberti, spiegando come le prove che Riina, diciassette ergastoli da scontare e mandante delle stragi di Capaci e via D’Amelio, sia ancora il capo di Cosa Nostra, siano molteplici. Non a caso due anni fa il Ministro Orlando gli prorogò il regime di 41-bis. Indignati i familiari delle vittime che parlano di segnale devastante: “Riina non ha mai pensato ad assicurare una morte dignitosa a mio marito Giovanni Falcone e a tutte le altre vittime che ha fatto saltare in aria”, sottolinea ad esempio Tina Montinaro, vedova dell’agente di scorta di Giovanni Falcone. E il pensiero va anche all’altro boss corleonese, Bernardo Provenzano, alimentato negli ultimi mesi solo con un sondino. Lui, morto lo scorso luglio, in regime di 41-bis.