“Investigatori mossi da un proposito criminoso e che hanno esercitato in modo distorto i loro poteri”: è in una lunghissima motivazione che i giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta usano parole durissime verso chi condusse le indagini sulla strage di via D’Amelio. Il riferimento è al gruppo che indagava sulle stragi del 1992, guidato da Arnaldo La Barbera, funzionario di polizia, poi morto. Servitori infedeli dello Stato ispirarono o suggerirono a piccoli criminali di raccontare falsità sugli autori dell’attentato al giudice Borsellino e agli uomini della sua scorta. Il più controverso dei finti pentiti è stato Vincenzo Scarantino, che in vent’anni di processi si è reso protagonista di rocambolesche ritrattazioni. Per Scarantino i giudici dichiararono la prescrizione, concedendogli l’attenuante prevista per chi viene indotto a commettere reati da altri. Il processo, denominato “Borsellino quater”, ha visto condannati all’ergastolo il boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino e a dieci anni i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Ma quale fu lo scopo di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana? Coprire forse delle fonti rimaste occulte? Oppure, l’occultamento di responsabilità di altri soggetti o entità che percepivano come un pericolo l’attività del magistrato? Nelle motivazioni si parla anche della famosa agenda rossa del giudice, il diario che custodiva nella sua borsa, di cui non si ha più traccia. Per la Corte, La Barbera è stato coinvolto anche in questo. L’indagine sull’agenda è stata archiviata. Una nuova indagine è in corso e coinvolge i poliziotti che stavano nel pool di Arnaldo La Barbera. Mentre il depistaggio sulla strage, che avvenne cinquantasette giorni esatti dopo l’attentato di Capaci in cui morì il giudice Falcone, è emerso grazie alle rivelazioni di uno dei pentiti più famosi della storia recente, Gaspare Spatuzza.