Un paio di normalissimi jeans e un maglione a collo alto, un pigiama, un tubino nero, un vestito con un fiocco, un camice da lavoro, una tuta. Com'erano vestite quel giorno le donne che hanno subito una violenza sessuale se lo ricordano bene anche perché spesso se lo sono sentite chiedere nelle stazioni di polizia, nelle aule di tribunale, persino in casa propria. Quella domanda inquisitoria è diventata una mostra organizzata da Libere Sinergie in esposizione al tribunale di Milano che racconta, attraverso gli abiti che indossavano quel giorno, la storia di 17 donne vittime di stupro e che ha l'obiettivo di abbattere stereotipi e pregiudizi. "Sono 17 storie di donne che si sono confidate con noi. Com'eri vestita e poi come mai qui in tribunale. No? Perché poi alla fine è nelle aule dei tribunali che la prima cosa che il difensore dice: Vabbè ma che jeans aveva? Erano attillati? Ed è proprio la colpevolizzazione totale". Si chiama vittimizzazione secondaria e avviene ogni volta che qualcuno mette anche involontariamente in relazione la violenza subita con una presunta responsabilità della vittima stessa, come fosse una colpa. Cosa che accade ogni volta che una donna che ha subito uno stupro le viene chiesto: "Ma tu com'eri vestita?". "Nei tribunali non devono più entrare domande tipo quella da cui prende il titolo la mostra: com'eri vestita, quali erano i tuoi gusti sessuali, come ti comportavi, addirittura, ti è piaciuto, allorché si esamina una vittima di violenza sessuale. È una violenza istituzionale secondaria impattante per la vittima perché nel processo penale dovrebbe trovare tutela, soddisfazione". Com'eri vestita è l'adattamento italiano di un'installazione ideata all'università del Kansas. In Italia è arrivata nel 2018 e da allora sono state oltre 300 le tappe realizzate in tutto il paese.