La sentenza di primo grado del Tribunale di Taranto, oltre a condannare per disastro ambientale i precedenti proprietari dell'ex ILVA, ha disposto il sequestro degli impianti dell'area a caldo dove lavorano oggi circa 10 mila dipendenti di cui gran parte in Cassa Integrazione. Ma la sentenza non avrà alcun effetto immediato. Il sequestro infatti diventerebbe operativo solo se il verdetto fosse confermato fino al terzo grado di giudizio, che vedremo forse tra diversi anni. Per definire il futuro dell'ex ILVA si è in attesa infatti di un'altra sentenza, molto più vicina. Il Consiglio di Stato, il massimo tribunale amministrativo, dovrebbe decidere a breve se confermare la sentenza del TAR, che aveva dato ragione al Sindaco di Taranto, il quale, a febbraio 2020, emise un'ordinanza per fermare l'impianto per ragioni ambientali. Solo dopo questa sentenza si potrà delineare il futuro dell'acciaieria approvando il bilancio, in perdita da tre anni, e il nuovo consiglio di amministrazione, frutto della partnership Invitalia-ArcelorMittal. Per il funzionamento dell'acciaieria è un fatto vitale. Spegnere gli altiforni è un'operazione che può durare diversi mesi, per non parlare della loro eventuale riaccensione. Già nel 2012 un giudice aveva disposto il sequestro dell'impianto, all'inizio del processo che è ora arrivato alla sentenza di primo grado, ma una legge voluta dal Governo Monti definì l'allora ILVA un impianto strategico e la produzione continuò. L'impianto è poi passato sotto commissariamento nel 2013, nel 2016 fu messo in vendita, e nel 2017 fu acquistato dalla multinazionale dell'acciaio ArcelorMittal, che però nel 2019 annunciò di voler spegnere gli impianti dopo diversi contrasti con il Governo italiano. Da allora le parti sono scese a patti e lo Stato italiano, per tramite della società pubblica Invitalia, è entrata nel capitale.