La prossima riforma previdenziale dovrà durare a lungo, pensare ai giovani, non sfasciare i conti dello Stato e garantire flessibilità. É il Ministro del Lavoro Orlando, rispondendo al question time alla Camera, a tracciare le linee del sistema pensionistico del futuro che, ha spiegato, dovrà assicurare assegni adeguati. L'intervento di Orlando cerca di rispondere alla domanda "cosa accadrà dopo la fine di quota 100?". Interrogativo inevitabile, visto che a fine anno termina il meccanismo che negli ultimi tre anni ha permesso di lasciare il lavoro con 62 anni di età e 38 di contributi. Se nel frattempo non si interverrà, si tornerà alla riforma Fornero, che prevede l'uscita dal lavoro a 67 anni. Certo, è vero che sistemi per andare in pensione prima già esistono. Pensiamo, ad esempio, a "opzione donna", destinato alle lavoratrici che hanno almeno 58 anni e 35 anni di contributi, con taglio però dell'assegno. O alle regole che salvaguardano chi svolge lavori usuranti o all'anticipo pensionistico che, per categorie disagiate, è a carico dello Stato. Ma per chi non rientra in queste casistiche, con la fine di quota 100, scatterà un maxi scalone di 5 anni. Il confronto tra il Governo e le parti sociali inizierà a giugno. I sindacati, da parte loro, hanno già una loro proposta: consentire a tutti un'uscita flessibile a 62 anni o con 41 anni di contributi. C'è poi uno strumento, che già esiste, che il Governo sta pensando di ampliare nel decreto Sostegni Bis che, ha detto il ministro Orlando, potrebbe rappresentare un'anticipazione di future forme di flessibilità. Si tratta del contratto di espansione, che consente uno scivolo verso la pensione ai lavoratori a cui mancano 5 o 6 anni per maturare il diritto. Secondo i sindacati però, questa possibilità sarà un flop, perché troppo onerosa per le aziende. É così, sull'eterno cantiere delle pensioni, aleggia la domanda di sempre: "Alla fine tra lavoratori, azienda e Stato, chi paga la prossima riforma?".