Un 17 da incubo per Uber. La società che ha rivoluzionato il mondo dei trasporti urbani, trascinandosi strali e proteste dei tassisti di mezzo mondo, ha subìto negli ultimi mesi un tracollo di immagine che ha spinto gli azionisti a chiedere, e ottenere, il ricambio dei vertici con l’uscita del fondatore, Travis Kalanick. Due cause legali pesano su Uber: a febbraio una ex dipendente ha accusato di molestie sessuali un manager di Uber sostenendo che l’azienda avrebbe insabbiato tutto per coprire lui e, soprattutto, numerosi altri casi analoghi. In primavera Google ha denunciato il furto di brevetti per le sue auto senza pilota che Uber stava sperimentando in contemporanea con Mountain View. Particolare finanziario non irrilevante: la società, nata nel 2009, non ha mai chiuso un bilancio in utile mentre il giro d’affari continua a crescere a ritmi forsennati. Il fatturato del 2016 è risultato oltre il doppio di quello del 2015, superando i 20 miliardi di dollari. Non essendo quotata in Borsa e non producendo profitti, chi ci mette tutti questi soldi? Un gruppo forte di investitori che, quindi, ha gran voce in capitolo. Antefatto necessario perché sono stati proprio cinque di questi grandi fondi internazionali a chiedere esplicitamente con una lettera la testa di Kalanick. Il fondatore, che pochi giorni fa aveva annunciato una specie di periodo sabbatico, ha capito che il passo di lato non era sufficiente e ha fatto un passo indietro rassegnando le dimissioni dalla carica di amministratore delegato. Stressato dalle vicende giudiziarie, colpito dalla recente scomparsa della madre in un incidente nautico, Kalanick ha così ceduto ai suoi finanziatori ma resta primo azionista con il 30% della sua società, potrebbe non essere stato il suo ultimo atto a Uber.