La caduta di Kabul non fu né imprevedibile né improvvisa. Eppure, sorprese tutti. Forse perché non si era voluto osservare con attenzione quel che accadeva in un luogo troppo lontano, perfino nei ricordi. Erano 10 anni che non si parlava più di Afghanistan dal catastrofico tentativo del generale Mc Crysthal di riprendere il controllo del sud del Paese sotto l'amministrazione Obama. Eppure era sotto gli occhi di tutti: Kabul cadde senza opporre praticamente resistenza. I talebani entrarono in città e sfilarono sotto il monumento di piazza Massud, di fronte all’ambasciata americana che bruciava disperatamente i documenti sensibili e spostava il personale rimasto nell’aeroporto internazionale. Il Presidente Ashraf Ghani, che aveva promesso resistenza “fino all’ultimo uomo, e all’ultima goccia di sangue”, scappò quel giorno, senza neanche il coraggio di rilasciare una dichiarazione di resa, ma affidandola all'oscuro Ministro degli Interni. Da lì si sarebbe assistito alla disperata fuga degli afgani all'aeroporto Karazai. La calca ammassata senza speranza all'Abbey Gate, le terribili scene degli uomini aggrappati ai carrelli degli aerei, che precipitano al decollo. Per certi versi il destino dell’Afghanistan era già stato scritto un anno prima, a Doha, con la firma dell’intesa tra gli Stati Uniti e il “non riconosciuto Califfato dell’Afghanistan che sarà chiamato Talebani”. Così recitava l’intestazione dell’intesa, siglata dall’amministrazione Trump, in cui di fatto si riconoscevano gli Studenti del Corano come interlocutori ufficiali e gli si dava dignità politica e internazionale. In quell’accordo i talebani si impegnavano a non svolgere più attività terroristiche contro l’Occidente e a non ospitare più santuari di Al Qaeda. In cambio di questo, gli Stati Uniti non li avrebbero più combattuti. La speranza era che l’ANA, l’esercito afgano, dopo 20 anni di addestramento e finanziamenti occidentali, per un totale superiore a 91 miliardi di dollari, avrebbero avuto la capacità di contenere l’offensiva degli Studenti del Corano. Dove nascessero queste speranze era già indecifrabile all’epoca, ma era un mistero ancora più incomprensibile a maggio del 2021, da quando i talebani avevano lanciato un’offensiva per la riconquista del Paese, ed era evidente l’inadeguatezza dell’ANA a farvi fronte. A inizio luglio del 2021 il numero di province in mano ai talebani cresceva a una velocità esponenziale. Un domino inarrestabile che avrebbe portato al 15, alla sfilata dei mezzi occidentali impavesati con la Shahada bianca, il simbolo dei Talebani per le vie di Kabul. Si chiudevano così 20 anni di occupazione occidentale, la “guerra al terrore” e un conflitto nato senza una strategia e un obiettivo chiaro. Il resto, come si dice, è storia. In Afghanistan, però, l’orologio della Storia non va avanti, ma indietro.