Ha ascoltato calmo la lettura della sentenza, in piedi, senza tradire alcuna vera emozione. Era già pronto a morire in diretta Tv, Slobodan Praljak, arrivato a settantadue anni senza sentirsi responsabile dei crimini compiuti a Mostar contro la comunità bosniaca musulmana durante la guerra che, agli inizi degli anni Novanta, insanguinò la ex Jugoslavia. “Slobodan Praljak non è un criminale di guerra e con sdegno respingo questa sentenza”, ha scandito nella sua lingua l’ex Capo di Stato Maggiore del Consiglio di difesa croato davanti ai giudici del Tribunale internazionale dell’Aja. La bottiglietta del veleno l’aveva già in mano e portarla alla bocca è stato un attimo. Il rapido trasporto in ospedale si è dimostrato inutile. Così l’ex generale, con il mito della Grande Croazia, si è sottratto al giudizio degli uomini. Il processo di appello aveva appena confermato la condanna di primo grado a vent’anni, pronunciata nel 2013. Con lui sono stati giudicati altri cinque imputati, leader politici e militari croato-bosniaci condannati a pene tra i dieci e i venticinque anni. Nonostante il fatto che i croato-bosniaci e i musulmani di Bosnia fossero alleati contro i serbo-bosniaci nel conflitto che infiammò i Balcani tra il 1992 e il 1995, per circa undici mesi, nel 1993, combatterono anche gli uni contro gli altri e Mostar rimase sotto assedio per tutto quel lungo periodo. Le immagini della distruzione del famoso e cinquecentesco ponte ottomano, lo Stari Most, simbolo della città e del dialogo tra diverse culture, oggi ricostruito, fecero il giro del mondo. Fu proprio Praljak il principale responsabile di quella distruzione, arrecando così, tra l’altro, secondo la Corte, un danno sproporzionato alla popolazione civile musulmana della città. Le reazioni in Croazia non sono tardate ad arrivare. A Zagabria, tutte le forze politiche e il Premier conservatore Andrej Plenkovic hanno definito ingiusta la sentenza. Il Premier ha annunciato ricorso.