100 giorni all'inferno, un milione di morti. La storia dell'uomo si interrompe in Ruanda dal 6 aprile al 16 luglio 1994 per dare spazio al male assoluto. Il movente? L'odio razziale verso i Tutsi che avevano costituito fino ad allora l'élite sociale e culturale del paese. Ma facciamo ordine. Siamo sulla linea dell'equatore, Ruanda Tutzi e Hutu convivono nello stesso territorio, uguale lingua, religione, cultura. I primi a far germogliare il razzismo sono i coloni belgi che impongono negli anni trenta l'indicazione dell'etnia. Poi è un'escalation: Hutu e Tutsi cominciano a sfidarsi per il potere nel paese; i Tutsi hanno la peggio e devono lasciare il Ruanda. Quando provano a rientrare, trovano ad aspettarli milizie Hutu irregolari armate finanziate e sostenute dal Governo del Presidente Abi Raimana. Quando il 6 aprile Abi Raimana viene ucciso in un attentato comincia il genocidio: le strade si riempiono di barriere; al controllo dei documenti le persone che hanno sulla carta d'identità l'appartenenza all'etnia Tutsi vengono massacrate a colpi di machete. L'ONU decide di ritirare il contingente di pace, rimangono solo pochi caschi blu che assistono impotenti al massacro. La resistenza militare dei Tutsi si riorganizza faticosamente, solo a luglio riescono ad avere la meglio con l'ingresso a Kigali di Paul Kagame. Il 16 luglio la guerra è finita, la traccia del male però è indelebile.