Il popolo di Hillary: donne, neri, gay ecco chi la sostiene

01 nov 2016
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Donne, giovani, neri, ispanici, minoranze: sono loro i protagonisti della Fight Song, la canzone della battaglia, l’inno ufficiale della campagna elettorale democratica. Loro sono quel popolo che ha portato Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008. Loro sono quel popolo che al netto degli ultimi scandali, con le nuove mail che hanno riacceso i fari dell’FBI sulla sua corrispondenza da segretario di Stato con il suo indirizzo privato di posta elettronica, Hillary Clinton coltiva e cerca di sedurre, oggi come cinquant’anni fa, come ci spiega Jason Klein, Direttore della Comunicazione della Main East High School, il liceo che la Clinton ha frequentato nei sobborghi di Chicago. “Era una studentessa eccellente, è stata presidente di classe, faceva parte del consiglio studentesco, vinse nel suo ultimo anno il primo premio in scienze sociali”, racconta Jason, aggiungendo che anche da first lady non ha mai dimenticato la sua comunità e che ora la sua candidatura viene vissuta nella scuola dagli studenti con un motivo di orgoglio e di speranza, soprattutto per le ragazze. “Molte ragazzine in questa scuola, in tutti gli Stati Uniti, ora con orgoglio guardano Hillary e dicono: posso fare una cosa che non credevo di poter fare”. Sin da adolescente, Hillary Clinton è sempre stata una persona di grande ambizione, e già quando era seduta in un banco come questo, nel suo liceo, iniziava a pensare alla possibilità di rompere il soffitto di cristallo, di arrivare un giorno, forse, ad essere la prima donna Presidente degli Stati Uniti d’America. Stando solo ai sondaggi delle ultime due settimane, la Clinton è avanti su Donald Trump di una media di tredici punti fra l’elettorato femminile che, fra l’altro, a livello nazionale è più ampio di quello maschile. “Credo che il fatto che sia una donna, stia già facendo la differenza. Penso al problema delle molestie sessuali, di cui non si è mai parlato prima. Le persone della mia generazione neanche le chiamavano molestie”. Il fattore “D”, il fattore donne, lo ritroviamo nei suoi comizi, nei piccoli centri degli swing states, così come nelle grandi città. “Hillary si è sempre impegnata nei movimenti femministi e per i diritti delle donne”. “È dalla parte delle donne nelle politiche sull’istruzione, l’infanzia, la salute”. E nei piccoli centri, così come nelle grandi città, a portare l’elettorato femminile verso di lei, più che il suo essere donna, sono le dichiarazioni sessiste e le accuse di molestie che hanno caratterizzato la campagna di Donald Trump. “Lui non può essere il nostro Presidente, è inquietante, soprattutto per i bambini e le famiglie”. “Non è degno di essere Presidente”. Ma il suo modo di trattare le donne l’ha condizionata nella sua scelta? “Sì, guarda la spilla: sono una donna cattiva”. Non solo fra le donne, anche in un altro suo bacino elettorale molto incisivo, come quello della comunità nera, a coalizzare, più che il programma politico di lei, è l’odio verso di lui, come ci spiega il reverendo Jesse Jackson, a margine di un comizio della Clinton in Nord Carolina. “Abbiamo bisogno di qualcuno che combatta per la giustizia razziale, l’uguaglianza, i sussidi, che abbia una visione non di un palazzo che sta ai margini e che sarebbe un incubo per l’America”. Nonostante negli ultimi otto anni, per la prima volta ci sia stata una first family nera, il disagio della comunità resta molto forte. Che cosa vuole dal nuovo Presidente? “Lavoro, più lavoro”. “Più soldi”. D’altronde, come spiegava Bernie Sanders, il 51 per cento degli afroamericani fra i diciassette e i vent’anni è disoccupato, e a questo va ad aggiungersi il conflitto razziale degli ultimi anni, come hanno raccontato e urlato, durante tutta la campagna elettorale, movimenti come il Black Lives Matter, una rabbia e un’insoddisfazione che al momento premia la Clinton, che raccoglie fra i neri, oltre il 90 per cento dei consensi. “Tra i miei amici e le persone che conosco, votiamo tutti per i democratici. Sono gli unici che possono portare soluzioni per il nostro mondo”. “Visto che me lo chiedi, ti rispondo che voto per lei, per quello che fa per i neri”. Ma le proteste, e a volte le violenze degli ultimi mesi, sono anche il sintomo di una generalizzata disillusione, nella comunità, che potrebbe spingere molti a restare a casa l’8 novembre, in controtendenza con quanto avvenuto nelle elezioni del 2012, quando per la prima volta la partecipazione al voto fra gli afroamericani è stata più ampia di quella fra i bianchi. Ma quattro anni fa si trattava di riconfermare il primo Presidente nero della storia. Adesso, invece, quella dell’affluenza rischia di essere un’incognita pericolosa sul cammino di Hillary, e non solo fra i neri. Forse pochi lo ricordano, ma questo è il playground dove furono girate alcune delle scene più famose del film West Side Story, che raccontava la rivalità fra una gang di portoricani e una gang di bianchi a New York. Dagli anni Sessanta ad oggi, il profilo degli ispanici negli Stati Uniti è profondamente cambiato. Nel 2008 e nel 2012 hanno fatto parte della coalizione vincente che ha consentito a Barack Obama di entrare alla Casa Bianca. Ora Hillary Clinton e il Partito Democratico contano sul voto dei latini per vincere le elezioni di novembre e per cambiare la mappa elettorale degli Stati Uniti. Negli Stati Uniti ci sono circa 27 milioni di ispanici che hanno diritto a votare e quest’anno gli analisti si aspettano che poco più di 13 milioni andranno alle urne. Significa un incremento del 17 per cento rispetto al 2012, che sta già spostando Stati tradizionalmente repubblicani come Nevada, Colorado, Arizona, New Mexico e in parte anche il Texas, verso i democratici. Secondo i sondaggi, in questo gruppo Clinton ha un vantaggio di circa il 50 per cento su Trump. Molti ispanici votano automaticamente per il Partito Democratico, perché è quello che difende di più gli immigrati. “La Clinton mi piace perché sarà un buon presidente per la mia gente”. Il Presidente Obama ha cercato di riformare le leggi sull’immigrazione, per integrare i circa 12 milioni di latini illegali che vivono negli USA. L’ostruzionismo del Congresso a maggioranza repubblicana lo ha bloccato, ma lui ha varato comunque alcuni decreti per proteggere dalle espulsioni almeno i figli degli immigrati. Queste politiche hanno dato un vantaggio a Hillary. I repubblicani hanno cercato di cambiare la tendenza, contando sul fatto che gli ispanici sono conservatori sulle politiche sociali e per la famiglia, ma l’avvento di Trump ha vanificato questi sforzi. “Trump dice che vuol fare il muro, anche se è un po’ che non ne parla, e comunque sarebbe troppo caro. Il Messico non pagherebbe mai per costruirlo, ma lui continua a dividere la gente”. Hillary, quindi, vincerà il voto ispanico, ma se risulterà determinante, dipenderà dalla frequenza dei latini alle urne. Un discorso simile si può fare per la comunità gay, che era parte della coalizione vincente di Obama. Per ascoltarla siamo andati allo Stonewall Inn del Greenwich Village, dove negli anni Sessanta cominciarono le rivolte della comunità omosessuale. “Odio Trump, odio quello che sta succedendo e che è successo negli Stati Uniti negli ultimi quarant’anni, sin dai tempi di Reagan. Mi fa stare male e francamente fa paura”. Hillary però genera anche scetticismo fra i gay, perché in passato si era opposta ai matrimoni omosessuali. “È come dover scegliere tra un padre alcolizzato e una madre fatta di crack, o viceversa: in entrambi i casi si perde”. Ma la componente della coalizione di Obama che ha creato più difficoltà a Hillary, sono stati i giovani e i Millennials che, durante le primarie, hanno preferito Bernie Sanders, accusandolo di essere uno strumento del vecchio establishment politico ed economico. Questo studente della Longwood University è un sostenitore del candidato libertario Gary Johnson. “Voto Johnson perché le sue politiche sono semplicemente di buon senso. Buonsenso che gli altri due candidati non hanno. Pensi ad esempio alle loro proposte in politica estera”. Davanti alla minaccia di Trump, però, molti giovani si sono rassegnati alla Clinton. E ora, secondo l’ultimo sondaggio GenForward, della University of Chicago, lei ha il 60 per cento dei consensi tra i ragazzi di età compresa fra diciotto e trent’anni. “Preferivo Bernie Sanders, non ero al 100 per cento con la Clinton, all’inizio, ma arrivati a questo punto, sono davvero con lei. Credo in quello che dice, anche perché Donald Trump vuole portare il nostro Paese indietro di vent’anni”. Per vincere l’8 novembre, Hillary dovrà dunque tenere insieme questa coalizione composta da donne, minoranze e giovani, sperando che la paura di Trump li spinga alle urne.

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