Oltre il patriottismo: la novità è nell’evoluzione di Viktor Orban portata dalla guerra. Il leader populista ungherese si presenta alle elezioni per il quarto mandato come garante della pace: non è la nostra guerra, dobbiamo starne fuori – lo slogan di chi è per l’avversario Marki Zay “l’ultimo alleato di Putin nell’UE e nella NATO”. Condanna l’invasione ma è contro l’invio di armi sino a proibirne il passaggio attraverso il proprio confine, affinché l’Ungheria non diventi un bersaglio. Non si oppone alle sanzioni ma garantisce al Paese di mantenere le fondamentali importazioni di energia dalla Russia. D'altra parte Orban sfila tra i rifugiati ucraini a cui offre accoglienza. Un’immagine nuova e dissonante rispetto alla politica anti-migratoria, che nel 2015 si materializzò in 175 Km di barriera metallica al confine con la Serbia. Era la prima grande ondata legata anche alla guerra in Siria, e così all'epoca divenne 'Viktator'. Fidesz, il suo partito, è acclamato e sostenuto, è la maggioranza al Governo, con politiche molto nette. Esempio: una legislazione che discrimina i diritti della comunità LGBT. Immigrazione, diritti, economia. O meglio 'Orbanomics', soprannome conquistato nel 2010 quando salì al potere, per la politica economica definita non ortodossa; e da 'Orbanomics' a genio, per chi continua a sostenerlo. Orban funambolo, contro la guerra ma senza mai citare Vladimir Putin, conferma così il suo seppure lieve vantaggio alla vigilia dell’elezione.