Siamo pronti a morire, dicono i leader della protesta che da oltre un mese infiamma il Myanmar e lanciano appelli di intensificare la mobilitazione, nonostante la repressione da parte della giunta militare che ha preso il potere dopo un colpo di stato, invertendo così anni di lenti progressi verso la democrazia. In migliaia sono scesi in piazza anche oggi in diverse città del Paese per protestare contro i blitz notturni e gli arresti di membri del Governo, di dirigenti della Lega nazionale per la democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi, capo di fatto del Governo civile, anche lei in detenzione militare. A Bagan, testimoni parlano di colpi di arma da fuoco e feriti. Spari anche a Yangon e lacrimogeni a Mandalay, i manifestanti alzano il tiro e i militari non arretrano. Una situazione esplosiva nella quale la Cina sostiene di non avere alcun ruolo attivo, ma fa sapere di appoggiare il dialogo per raffreddare il clima il prima possibile ed evitare ulteriori spargimenti di sangue e conflitto. La Cina ha detto il titolare degli esteri Wang Yi, a margine del Congresso nazionale del popolo rimane legata al principio di non interferenza nelle questioni interne di altri Paesi ed è pronta a impegnarsi nella comunicazione tra le parti. Intanto la protesta contro la giunta birmana esce dai confini e raggiunge gli espatriati in Thailandia e Taiwan. Taiwan, l'altra Cina, quella dei nazionalisti di Chang Kai-Shek, che difende la sua autonomia, ma è sempre più nel mirino di Pechino e che oggi il ministro Wang Yi ha definito parte inalienabile del territorio cinese. Non ci sono margini di compromesso, ha aggiunto. I due lati dello stretto saranno unificati.