Coronavirus, a Milano l’Humanitas si trasforma per Covid-19

28 mar 2020
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Siamo nel cuore pulsante di uno degli ospedali milanesi ai tempi del coronavirus. In questa angusta saletta al secondo piano dell'istituto clinico Humanitas si svolge due volte al giorno la riunione operativa delle terapie intensive. Da una parte del vetro l'area Covid free e dall'altra l'area Covid. In questo momento è in corso una conference call importante, la più importante della giornata, in cui viene coordinata l'attività delle due aree della terapia intensiva: quella Covid e quella non Covid, ci si parla, ovviamente, attraverso telecamera da una zona all'altra. Questi li metto sopra i pantaloni o tolgo tutta la roba? Il professor Maurizio Cecconi dirige la prima linea, è lui che ci squadra dalla testa ai piedi. È lui che decide e ci fa da guida nell'unico settore del suo reparto cui ci è consentito accedere. - Uscendo da questa parte abbiamo una zona che abbiamo mantenuto per la recovery, quindi quando i malati si svegliano comunque dobbiamo garantire che tutto quello che facevamo prima ci sia ancora. Da questa parte abbiamo la zona in cui i malati si svegliano, siamo tranquilli che respirano bene, che non hanno dolore prima di mandarli in reparto, Da quest'altra parte abbiamo convertito tutto ciò che invece è la nostra terapia intensiva non Covid. Abbiamo qualcosa come 40 malati ventilati Covid-19 positivi. Abbiamo 10 malati qui, abbiamo altre 20 postazioni di subintensiva che cogestiamo con gli altri reparti per garantire il supporto respiratorio. Abbiamo un po' di persone per farlo in sicurezza, se regge la pronazione io la lascerei pronato fino a domani mattina. Se siete d'accordo ragazzi. - Dalle dotazioni tecnologiche alla divisione dei flussi di pazienti, dall'isolamento delle aree con pazienti positivi alla gestione dei dispositivi di protezione e dei ventilatori polmonari. Non importa, finché c'è il segnale di miglioramento continuiamo a restar fermi così. Non cambierei strategia in questo momento. - I reparti sono stati riconvertiti a tempo di record, le sale operatorie, trasformate in terapie intensive, tutto nuovo per un ospedale che non aveva mai gestito malattie infettive. Come si fa a riconvertire un'attività del genere in così poco tempo? Avevamo due nemici: il tempo da una parte, un virus sconosciuto dall'altra, abbiamo dovuto evidentemente modificarci rapidissimamente sia da un punto di vista di tecnologia, sia da un punto di vista di competenze, di conoscenze, di capacità di cura. Cosa dice tutte le sere alle persone che lavorano con lei? Scrivo ogni sera alle persone che lavorano con noi. Il messaggio è quello: uniti ce la possiamo fare, uniti Stiamo cercando di rispondere al meglio possibile. Se n'è accorto tutto il mondo di cosa stanno facendo i medici italiani. A questa videoconferenza internazionale partecipavano 40 medici di altrettanti paesi del mondo. Stati Uniti, Australia, Brasile, Israele, Inghilterra, Germania, Francia sono solo alcuni dei paesi i cui ospedali giornalmente si collegano per imparare dalla risposta italiana all'emergenza Covid-19. Qual è il danno maggiore che può arrivare qui al vostro lavoro? Il danno più grande è che con volumi sempre maggiori di pazienti che arrivano, ovviamente cominci ad avere standard che non volevi avere prima. Non avrei mai pensato due mesi fa di dover condividere un ventilatore con due malati, non voglio arrivarci, stiamo facendo di tutto per trovare tecnologia e per cercare di garantire quello che facevamo prima nei limiti del possibile, ci deve aiutare la popolazione, cercando di farci arrivare meno malati. Questo è un virus che ha una trasmissibilità veramente altissima, se non viene controllato bastano 10 passaggi di persone per contagiare migliaia e migliaia di persone. C'è molta paura per Milano in questo momento, Milano tiene? Milano sta tenendo con il contagio in questo momento però non possiamo abbassare la guardia. Se abbassiamo la guardia rischiamo di fare danni ai cittadini, ma anche agli ospedali. È una sfida per tutti noi: ci siamo trovati di colpo da essere super specializzati nel nostro campo, a trovarci a gestire una malattia di cui non conoscevamo neanche la diagnosi, i sintomi. Abbiamo dovuto aggiornarci ovviamente, imparare anche sul campo, affidarci ai nostri colleghi più esperti nelle malattie respiratorie, malattie infettive e tentare di mantenere comunque attiva la nostra pratica sui pazienti patologici che comunque rimangono. Oggi qualcuno diceva: sarà come i post traumatizzati del Vietnam. Io non penso che sarà così. Però sicuramente è un'esperienza umanamente piuttosto piuttosto forte, perché ci sono delle situazioni chiaramente di fine vita, di isolamento, che sono difficili per i pazienti e anche per il medico.

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