Ha sempre recitato una parte e lo ha fatto con arroganza come forma di egocentrismo. Voleva essere una diva e oggi in qualche modo ci è riuscita. Impiega quasi sei ore il Pubblico Ministero Francesco De Tommasi per snocciolare, davanti alla Corte d'Assise di Milano, tutte le ragioni per cui, secondo lui, Alessia Pifferi va condannata per l'omicidio volontario di sua figlia Diana di appena 18 mesi, morta di stenti dopo sei giorni trascorsi da sola in casa. Una requisitoria fiume che, dice, segna idealmente la fine del suo cammino accanto a Diana. "Ora la affido a voi, abbiatene cura", dice rivolto alla Corte, mentre formula la sua richiesta di condanna: "Per aver consapevolmente inflitto alla propria figlia sofferenze atroci e inimmaginabili. Per averla condannata a un terribile destino, privandola così presto della possibilità di farsi una vita. Lei che aveva diritto più della mamma a farsi una vita. Io chiedo l'ergastolo per Alessia Pifferi". Poco prima del PM a prendere la parola, per rilasciare dichiarazioni spontanee, era stata l'imputata. Pochi minuti per raccontare della sua infanzia da isolata, delle scene violente in casa, di un abuso subito da piccola, delle botte di alcune detenute subite in carcere: "Voglio dire oggi, davanti a tutta Italia e a lei signor Giudice, è che io non ho mai voluto far del male a mia figlia. Io non ho ammazzato mia figlia". L'udienza si era aperta con il rigetto della richiesta di integrazione istruttoria, presentata dalla difesa di Alessia Pifferi, alla luce della nuova documentazione clinica relativa all'infanzia dell'imputata, e ritenuta dalla sua legale fondamentale per il giudizio: "Dicono che Alessia Pifferi aveva delle turbe psichiatriche già a 6 anni, che era necessario per lei fare della terapia, degli incontri di psicoterapia due volte a settimana. Aveva la 104 e aveva l'insegnante di sostegno". Il perito del tribunale aveva dichiarato Alessia Pifferi capace di intendere e di volere. Il 13 maggio la parola alla difesa.