“Le parole sono importanti” diceva qualcuno e le parole sono spesso lo specchio di una società, dei suoi pregiudizi e dei suoi luoghi comuni. Non avere nome è negare l'identità, non essere nati, non essere persone o cittadini. Ѐ capitato alle donne afghane, nonostante una guerra ventennale che doveva portare definitivamente democrazia e diritti, ma che non ha messo fine alle discriminazioni e violenze contro le donne. Solo da pochi giorni è passata una legge secondo cui le afghane avranno diritto di vedere scritto il proprio nome sui documenti. La campagna “Dov’è il mio nome?” è iniziata tempo fa su Facebook grazie a Tahmina Arian, attivista per i diritti delle donne, laureata a Kabul. Un tam-tam serrato, un fitto passaparola, poi adesioni e consensi sempre più vasti dentro e fuori il Paese. Alla fine la campagna ha fatto breccia. Finora in Afghanistan quando una donna si sposava il suo nome non compariva sugli inviti di nozze, quando partoriva il suo nome veniva omesso dal certificato di nascita del bambino e quando moriva sulla sua lapide si leggeva “la madre”, “la figlia”, “la moglie” o “la sorella” del signor X. Gli uomini delle zone rurali soprattutto si vergognano di chiamare per nome le loro madri o mogli e usano epiteti assurdi, disumanizzanti come “la mia gallina”, “la mia capretta”, “la mia oca”. Una cultura patriarcale conservatrice che qualifica le donne secondo il grado di parentela che hanno con un uomo. Ѐ lui a detenere la loro identità. La pratica di riferirsi alle donne come madre, moglie e figlia “di” è un'usanza tribale. La sfida iniziale ora è vinta, ma la mentalità profonda è ancora dura a morire. Il movimento non a caso è iniziato in una grande città, Herat. Dalla caduta dei Talebani l'Afghanistan è cambiato, ma convivono ancora molte facce. Milioni di ragazze oggi frequentano scuole e università e le donne svolgono importanti lavori governativi, possono anche curarsi in ospedale, ma molti diritti politici e civili sono ancora negati.