Se le accuse rivolte a Donald Trump, sessismo e molestie sessuali in primis, hanno monopolizzato la campagna elettorale insieme alle sue denunce, prive di prove, di elezioni truccate, sempre più pesanti e preoccupanti per democratici e repubblicani, il “mailgate” che da mesi accompagna Hillary Clinton, si fa sempre più pesante. Più difficile, forse, da comunicare all’opinione pubblica, ma estremamente grave. Non tanto per le mail del capo della sua campagna elettorale, pubblicate da Wikileaks, né per i famigerati discorsi a Goldman Sachs, che possono raccontare la candidata come troppo comprensiva con Wall Street, o il suo staff troppo vicino a determinati giornalisti, quanto per le pressioni fatte nei confronti dell’FBI in quella che sembra una vera e propria offerta di scambio. Lo raccontano alcuni documenti rilasciati proprio dal bureau, che nero su bianco fanno la cronaca dei tentativi del sottosegretario Patrick Kennedy, uno dei vice di Clinton al Dipartimento di Stato, di ottenere una diversa classificazione di alcune delle mail presenti nel server privato e poi consegnate. Classificazione in alcuni casi maggiore, in modo da non doverle mai rendere pubbliche, in altri casi minore, per evitare polemiche e accuse circa la sicurezza nazionale messa a rischio. Tentativi accompagnati dalla promessa: in cambio noi potremmo autorizzare una maggiore presenza dell’FBI in alcuni Paesi. Un vero e proprio qui pro quo, dunque. Non ci sono prove che Clinton sapesse, ma il sospetto è più che legittimo: lui non poteva non sapere, è il concetto transnazionale. E Trump coglie la palla al balzo: “incredibile – twitta – “e poi le elezioni non sarebbero truccate!”.