Solo parole, da spogliatoio, ma parole dette da un privato cittadino undici anni fa. Non come Bill Clinton, che parole ben peggiori le ha fatte diventare azione dentro lo Studio Ovale. Parole, è vero, ma che raccontano fatti, parole ancora che testimoniano e sdoganano un certo atteggiamento nei confronti delle donne: predatorio, aggressivo, misogino. Un atteggiamento che giustifica le violenze sessuali, che non è difendibile. Il giorno in cui il Washington Post mette le mani su un video del 2005, che racconta meglio di mille saggi l’approccio di Donald Trump nei confronti delle donne, “ci provo subito tanto sono una star e loro si fanno fare qualsiasi cosa”, l’America si spacca. Nell’angolo del candidato repubblicano questa volta rimangono in veramente pochi. Lo condannano i leader del partito, che temono o sperano questa sia la pietra tombale della sua candidatura, e più di uno ritira il proprio endorsement. Lo attacca, ovviamente, l’avversaria “è orribile”, twitta Hillary, prima di inoltrare la reazione di Jeb Bush “non ci sono scuse”. Quanto peserà sul voto o sui sondaggi resta, però, da vedere. Ma la reazione, collettiva, immediata e bipartisan, sembra troppo potente per rimanere senza conseguenze. Sarà la fine della candidatura di Trump? È una possibilità concreta adesso, perché il suo atteggiamento, confermato da vari aneddoti, rivendicato quasi, rischia di alienargli definitivamente i voti di molti indecisi e di qualche repubblicano, perché il partito conservatore nel suo establishment da mesi non cerca altro che un pretesto, perché gli episodi si moltiplicano, mai con la violenza, sempre con l’arroganza. Lui risponde così nella notte: “Non ho mai detto di essere perfetto. Ho detto cose sbagliate, di cui mi dispiaccio. Ho fatto un errore e chiedo scusa”. Poi la mano tesa all’America: “Il viaggio di questi mesi mi ha cambiato”. E il contrattacco: “Le mie parole sono diverse dall’azione. Bill ha fatto di peggio alle donne. Hillary ha minacciato le sue vittime”. Infine, l’appuntamento a domani, a Saint Louis.