Musulmano, osservante, ma non radicalizzato. Questo è il ritratto di Akbarjon Djalilov, il ventiduenne kirghiso identificato come l’attentatore della metropolitana di San Pietroburgo. Secondo alcune fonti di intelligence il giovane sarebbe stato reclutato e convinto a morire nel febbraio scorso durante il suo ultimo viaggio nel suo paese natale. In Russia dal 2011 aveva anche chiesto la cittadinanza, ma se fino a poche ore fa si pensava che Djalilov avesse agito da solo, gli investigatori si starebbero adesso concentrando su altre due persone, un uomo e una donna, anche loro originari dell’Asia centrale. Il DNA del giovane kirghiso è stato ritrovato sulla borsa che conteneva il secondo ordigno, quello inesploso, e che avrebbe dovuto essere attivato da un cellulare. Gli inquirenti non escludono che anche la bomba che Djalilov aveva addosso fosse di questo tipo e che necessitasse quindi di un comando a distanza. Secondo alcune ricostruzioni i servizi segreti russi sapevano dell’esistenza di una cellula in città e avrebbero messo sotto osservazione uno di loro prima dell’attentato, con scarsi risultati se non forse, ma è ancora da chiarire, quello di disattivare la rete cellulare nella stazione di Ploshchad Vosstania evitando un’altra strage. Nel frattempo il bilancio delle vittime è salito e il conto dei feriti in gravi condizioni potrebbe farlo crescere ancora nelle prossime ore. La pista islamista è, fin dai primi momenti, quella privilegiata da servizi e polizia, ma non è ancora arrivata nessuna rivendicazione, mentre San Pietroburgo stenta a ritrovare la normalità. Anche ieri è stata una giornata caratterizzata da molti falsi allarmi e continue chiusure delle stazioni della metropolitana, in un clima che, secondo le opposizioni, aiuterà Putin a stringere ancora di più la morsa della sicurezza pubblica.